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Piedi sulla roccia, cuore nel cielo: pellegrinaggio sul Podbrdo di Medjugorje

Di: Riccardo

Aggiornato: 28 Maggio 2025
6 minuti

Il sole è ancora tiepido. La strada che porta al Podbrdo è già punteggiata di sagome silenziose che avanzano con passo lento ma determinato. Sono qui per questo, per salire sulla collina delle apparizioni, dove tutto è iniziato. Dove sei bambini, nel 1981, hanno visto per la prima volta la "Gospa", la Signora.

Mi unisco al flusso di pellegrini, il rosario tra le dita. Ricordo le parole della Madonna in uno dei suoi messaggi: "Cari figli, il rosario mi è particolarmente caro, perché attraverso di esso, mi aprite il cuore e così posso aiutarvi". Ogni Ave Maria diventa così un passo preparatorio, un modo per aprire il cuore prima ancora che la salita fisica inizi.

Ampia veduta del Podbrdo a Medjugorje con pellegrini in preghiera presso la statua della Madonna, luogo delle apparizioni mariane.

Passi che parlano: quando il dolore diventa offerta

Inizio a salire. Primo passo. Secondo passo. La roccia è tagliente sotto le suole sottili delle mie scarpe. Mi chiedo come faccia quella donna davanti a me, che procede a piedi nudi, ogni passo una piccola offerta di dolore. Mi sorride incrociando il mio sguardo, come se il dolore fosse un segreto condiviso, un privilegio piuttosto che una sofferenza.

La salita non è tecnicamente difficile, ma ogni passo richiede attenzione. Le pietre calcaree sono affilate, pronte a punire ogni distrazione. Eppure, guardando i volti delle persone che salgono con me, non vedo sforzo o sofferenza, ma una strana serenità, come se il cammino stesso fosse già destinazione.

Un uomo anziano, sostenuto dal figlio, si ferma ogni pochi passi per riprendere fiato. I loro volti così simili, divisi solo dal tempo: lo stesso naso forte, gli stessi occhi profondi. Quando l'anziano vacilla leggermente, la mano del figlio è già lì, pronta, in un gesto che parla di anni di amore e rispetto reciproco. Non si dicono nulla, non serve. Mi chiedo quali preghiere, quali speranze portino con loro su questa collina.

A metà percorso, una piattaforma naturale offre un momento di riposo. Mi fermo e mi volto a guardare il panorama che si apre sotto di me. Medjugorje si estende placida, con il suo campanile che svetta come un dito puntato verso il cielo. Le case dai tetti rossi sembrano giocattoli disposti da una mano gigante. Da questa altezza, i problemi quotidiani sembrano rimpicciolirsi, assumere proporzioni più gestibili.

Non aspettare di essere pronto. Nessuno lo è mai abbastanza.

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Riprendo la salita, sentendo il vento che si intensifica. Porta con sé profumi di erbe selvatiche, di terra riscaldata dal sole, di qualcosa di indefinibile che appartiene solo a questo luogo. Un vento che sembra voler sussurrare segreti a chi sa ascoltare.

Man mano che salgo, noto come il rumore dei passi sulla pietra crei una sorta di ritmo collettivo, quasi una preghiera percussiva. Tac, tac, tac. Passi che diventano rosario, litania, meditazione.

La bambina che corre e il peso che la madre non rivela

Una bambina di forse otto anni supera tutti con un'energia che fa sorridere. Si arrampica come una piccola capra di montagna, fermandosi poi ad aspettare la madre che sale più lentamente, gravata da un dolore che le si legge negli occhi. La bambina non lo sa ancora, ma sua madre è qui per lei, per una diagnosi recente che ha cambiato il corso delle loro vite. Lo apprendo poi, in uno scambio di sguardi e poche parole con la donna. "Lei non sa ancora," mi dice sottovoce, indicando la figlia che corre più avanti. "Voglio che rimanga bambina il più a lungo possibile."

Mi chiedo quante storie simili stiano salendo questa collina insieme a me. Quanti dolori, quante speranze, quante preghiere silenziose si intrecciano in questa processione che si snoda sulla montagna. Alcuni portano fotografie di persone care, altri stringono rosari consumati dall'uso, altri ancora salgono a mani vuote, ma con il cuore pieno.

La Gospa e le lacrime che nessuno nasconde

Finalmente, dopo una curva, appare la statua della Madonna. Bianca contro il cielo blu, con il suo sguardo sereno rivolto verso la valle. È qui che i veggenti hanno visto apparire la Gospa, in questo punto preciso dove ora decine di persone si affollano in preghiera.

Mentre mi avvicino, noto una donna che piange silenziosamente, le mani premute contro il viso. Le sue spalle tremano con singulti trattenuti. Accanto a lei, un uomo – forse il marito – le circonda le spalle con un braccio, lo sguardo fisso sulla statua, gli occhi lucidi. C'è un'intimità in questo dolore condiviso che mi fa distogliere lo sguardo, come se stessi involontariamente spiando un momento troppo privato.

Mi faccio da parte, cercando un angolo meno affollato. Trovo uno spazio su una roccia piatta, levigata da migliaia di pellegrini prima di me. Mi siedo e chiudo gli occhi, lasciando che il sole di giugno mi scaldi il viso. Il chiacchiericcio sommesso delle preghiere in varie lingue crea un sottofondo ipnotico.

Quel battito che risponde al mio: quando i confini si dissolvono

È allora che succede qualcosa di strano. Con gli occhi chiusi, perdo momentaneamente la cognizione del luogo. Non so più se sono seduto sulla roccia o se la roccia è dentro di me. I confini tra esterno e interno sembrano dissolversi. Sento il battito del mio cuore, forte e regolare, e per un istante mi sembra di percepire un altro battito, come in eco, che risponde al mio.

Riapro gli occhi, confuso da questa sensazione. Il mondo è ancora lì, immutato. La statua, i pellegrini, il cielo blu. Eppure qualcosa è cambiato. C'è una qualità diversa nella luce, una nitidezza nei contorni delle cose che prima non c'era. O forse è il mio sguardo ad essere cambiato.

Una signora anziana accanto a me sorride, come se avesse intuito qualcosa. Mi porge una piccola pietra levigata. "Tenga," dice in un italiano stentato, "questa ha assorbito molte preghiere." Accetto il dono con gratitudine, stupito da questo gesto spontaneo tra sconosciuti.

Mentre tengo la pietra nel palmo della mano – calda, quasi viva – capisco che questa è l'essenza di Medjugorje. Non è nelle apparizioni sensazionali o nei fenomeni mistici, ma in questi piccoli momenti di connessione umana, di condivisione, di riconoscimento reciproco.

Sinfonia di silenzi: la preghiera che nessuno pronuncia

Rimango seduto per ore, osservando l'andirivieni dei pellegrini. Alcuni si fermano solo pochi minuti, scattano una foto e ripartono. Altri si inginocchiano in preghiera per tempi lunghissimi, immobili come statue. C'è chi piange apertamente, chi sorride con gli occhi chiusi, chi sussurra ripetutamente la stessa preghiera come un mantra.

Nel tardo pomeriggio, quando il sole inizia a calare, la folla si dirada. La luce assume tonalità dorate, ammorbidendo i contorni taglienti delle rocce. È come se la montagna stessa si rilassasse, sospirando dopo una giornata intensa.

Non aspettare di essere pronto. Nessuno lo è mai abbastanza.

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A piedi nudi verso il cielo: il dolore che svela

Sento un impulso improvviso. Mi tolgo le scarpe, volendo sentire la roccia direttamente sotto i piedi. Il primo contatto è doloroso – la pietra è ancora calda dal sole e punge la pelle delicata delle piante dei piedi. Ma poi, passo dopo passo, il dolore si trasforma in una forma acuta di presenza. Ogni passo diventa una preghiera non formulata, un atto di connessione con questa terra che ha visto così tante storie come la mia.

Mentre scendo a piedi nudi, sento che sto lasciando qualcosa sulla montagna. Non saprei dire cosa esattamente – un peso, un dubbio, una paura. E sto portando via qualcosa con me, oltre alla piccola pietra nel mio palmo. Una certezza silenziosa che non ha bisogno di parole o spiegazioni. Un battito che risponde al mio.

Il campanile della chiesa di San Giacomo si staglia contro il cielo che inizia a tingersi di viola. Medjugorje mi aspetta in basso, con le sue luci che iniziano ad accendersi una ad una. Scendo lentamente, passo dopo passo, cuore a cuore con la montagna, con il cielo, con quella presenza invisibile ma palpabile che ha chiamato così tante persone in questo angolo di Bosnia.

Il vero miracolo è nel palmo della mia mano

E capisco, con una chiarezza improvvisa, che il vero miracolo di Medjugorje non è nei fenomeni straordinari riportati dai veggenti, ma in questa capacità di trasformare una semplice collina rocciosa in un ponte tra terra e cielo, tra visibile e invisibile. Di trasformare sconosciuti in compagni di viaggio, di rendere tangibile ciò che normalmente sfugge ai nostri sensi.

Alla base della collina, mi rimetto le scarpe. I piedi mi fanno male, probabilmente sanguinano in qualche punto. Ma è un dolore diverso, significativo. Un dolore che parla di un cammino che non è solo fisico, ma che attraversa regioni più profonde dell'essere.

Guardo un'ultima volta la collina, ora avvolta nelle prime ombre della sera. La statua bianca è ancora visibile, illuminata da un ultimo raggio di sole. Non so dire con certezza se la Madonna appare davvero a Medjugorje. Ma so che qualcosa è apparso a me oggi: una versione più vera di me stesso.

E forse, alla fine, questo è il messaggio più profondo di questo luogo: che il divino non è qualcosa di esterno da cercare in visioni spettacolari, ma una presenza che attende di essere riconosciuta nel battito del nostro stesso cuore.

La piccola pietra pesa nel mio palmo, calda e vivente. La stringo forte mentre mi avvio verso il villaggio, portando con me la montagna, passo dopo passo, battito dopo battito.

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