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Fatima, dove la cera si scioglie e la quercia ricorda: il pellegrinaggio dei tre segreti

Di: Riccardo

Aggiornato: 30 Maggio 2025
12 minuti

La luce portoghese ha una qualità diversa. È ciò che noto mentre l'autobus si allontana dalla costa e si addentra nell'entroterra verso Fatima. Non è solo più intensa, è più antica, come se portasse con sé stratificazioni di tempo. Una luce che sembra aver assistito a millenni di preghiere, ben prima che tre pastorelli incontrassero una Signora vestita di bianco nel 1917.

Questo pellegrinaggio a Fatima sarà diverso da come lo raccontano le guide. Perché oggi non cercherò solo la grande spianata e la Basilica, ma i sussurri tra gli ulivi, le storie nascoste nelle pieghe del tempo, e quei luoghi dove il sacro si rivela in modi inaspettati.

Sui passi dell'Angelo: il miracolo dimenticato di Valinhos prima della Madonna

L'immagine di Fatima che tutti conoscono è quella della grande spianata con la basilica, delle folle oceaniche, della maestosità architettonica. Ma è in un angolo dimenticato, lontano dai riflettori, che Fatima mi si rivela per la prima volta.

Arrivo di mattina presto a Valinhos. Pochi sanno che qui, non alla Cova di Iria, l'Angelo della Pace del Portogallo apparve ai tre pastorelli un anno prima delle apparizioni mariane. Il luogo è quasi deserto. Un sentiero di pietra bianca si snoda tra ulivi centenari, i cui tronchi contorti sembrano custodi di un linguaggio antico.

Mi siedo su una roccia, solo. Il sole mattutino filtra tra le foglie creando una danza di luci e ombre sul terreno. C'è qualcosa di primitivo qui, qualcosa che precede le strutture, i dogmi, persino le parole.

Un anziano pastore passa in lontananza con poche pecore. Mi guarda, accenna un saluto. Mi chiedo se sia consapevole di camminare sullo stesso terreno dove, secondo la tradizione, un essere celeste si inchinò fino a terra in adorazione del divino. In quel momento comprendo che Fatima non è iniziata con Maria, ma con un angelo prostrato nella polvere, un'inversione della gerarchia cosmica che nessuno si aspetterebbe.

Il silenzio qui ha una densità particolare, come se l'aria stessa fosse satura di attesa. Non è l'assenza di suono – gli uccelli cantano, il vento muove le foglie, in lontananza un campanile batte le ore – ma una qualità di silenzio che sembra precedere la creazione stessa.

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Corpi di cera che si sciolgono in preghiera: il rito degli ex-voto alla Cappellina

A mezzogiorno mi dirigo verso la Cappellina delle Apparizioni nella Cova di Iria, il cuore pulsante di Fatima. Contrariamente a quanto mi aspettavo, non è la maestosità a colpirmi, ma la disarmante semplicità. Una struttura bianca, modesta, quasi fragile rispetto alla vastità della spianata che la circonda. Come se l'essenza del sacro rifuggisse l'imponenza per rifugiarsi nella vulnerabilità.

L'azulejo sul pavimento segna il punto esatto dove si ergeva l'elce sul quale apparve la Madonna. Mi inginocchio lì, non per devozione formale ma perché, istintivamente, le gambe cedono. La sensazione è straniante: non è che io mi sia inginocchiato nel presente, ma che qualcosa dal passato stia attraversando il tempo per toccarmi. Il piano temporale sembra incresparsi, e per un istante ho la netta percezione che il 1917 e il presente coesistano.

Una donna brasiliana accanto a me piange silenziosamente. Non la guardo direttamente, ma nella periferia della mia visione noto come le sue lacrime cadano esattamente sul bordo dell'azulejo. Mi coglie un pensiero inaspettato: quelle lacrime si uniscono a un fiume invisibile che scorre da più di un secolo, un fiume che non segue le leggi della fisica ma quelle di una geografia interiore che raramente esploriamo.

Mi alzo e mi avvicino al braciere dove i pellegrini accendono candele votive. Ma ciò che cattura immediatamente la mia attenzione non sono le comuni candele, bensì gli ex-voto di cera. Mani, piedi, teste, organi interni, persino figure intere di bambini – riprodotti in cera bianca e destinati a sciogliersi nel fuoco, in un rito che ha qualcosa di ancestrale, quasi pagano nella sua fisicità diretta.

Osservo una donna anziana che, con mani tremanti, deposita un piccolo cuore di cera nel braciere. Lo fa con tale intensità di concentrazione che sembra stia affidando non un oggetto, ma una parte di sé alle fiamme. In quel gesto c'è una comprensione istintiva del potere del simbolo: quel cuore di cera non rappresenta un organo, ma contiene in qualche modo il dolore, la speranza, la preghiera di chi lo offre.

La cera si scioglie rapidamente, mescolandosi con centinaia di altre offerte simili. C'è qualcosa di profondamente democratico in questo processo: re o mendicante, la cera si scioglie allo stesso modo, le preghiere si fondono nella stessa fiamma. Le distinzioni sociali, economiche, culturali che tanto ci definiscono nella vita quotidiana, qui si dissolvono come la cera.

L'aria è pervasa dall'odore di cera fusa e di fiori. La statua della Madonna guarda oltre me, oltre tutti noi, verso un orizzonte che solo lei può vedere. Non c'è nulla di estatico nel suo sguardo, nulla di trionfale. C'è piuttosto una ferma consapevolezza, come se conoscesse sia la bellezza che l'orrore del secolo che si sarebbe dispiegato dopo le sue apparizioni, e li contenesse entrambi nel suo silenzio.

All'improvviso comprendo perché i tre veggenti furono inizialmente terrorizzati dalle apparizioni: non è il timore reverenziale di fronte al divino, ma lo sgomento di fronte al reale nella sua insostenibile completezza.

Gli occhi che videro l'inferno: i tre pastorelli di Fatima e il peso insostenibile della verità

Nel primo pomeriggio visito la basilica dove riposano i resti mortali dei tre pastorelli. La folla ora è consistente, ma c'è un flusso ordinato di persone che avanzano verso le tombe.

Guardo i ritratti dei tre bambini esposti nella basilica. Osservandoli attentamente, noto qualcosa che non avevo mai colto prima: nei loro occhi non c'è l'innocenza che ci aspetteremmo, ma una maturità prematura, come se avessero visto non solo il cielo, ma anche l'inferno. Mi viene in mente che il famoso "segreto di Fatima" forse non era tanto un messaggio specifico, quanto questa consapevolezza adulta impressa negli occhi di tre bambini.

Mi fermo davanti alla tomba di Francisco. Morto a soli 10 anni durante l'epidemia di influenza spagnola nel 1919, Francisco aveva una caratteristica unica: durante le apparizioni, vedeva la Madonna ma non la sentiva parlare. Questa sua "apparizione silenziosa" mi colpisce come una profonda metafora: a volte il divino si manifesta attraverso la presenza, non attraverso le parole.

Una guida turistica passa vicino, raccontando in inglese la storia dei pastorelli. Si sofferma sul fatto che Lúcia visse fino a 97 anni, diventando suora, mentre i suoi cugini morirono bambini. "Alcuni dicono che fu un privilegio," dice la guida, "altri una condanna – dover portare il peso di quel segreto per quasi un secolo, mentre i suoi compagni venivano 'liberati'".

Questa prospettiva mi lascia sconcertato. Non avevo mai pensato alla longevità di Lúcia in questi termini. La sua vita lunga non fu forse un altro tipo di martirio? Portare il peso di ciò che aveva visto attraverso due guerre mondiali, l'Olocausto, l'era atomica, fino alle soglie dell'era digitale?

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La prima rivelazione: a Loca do Cabeço, dove l'Angelo si inginocchiò nella polvere

Nel tardo pomeriggio, quando la maggior parte dei pellegrini si riposa prima delle cerimonie serali, decido di visitare un luogo ancora più remoto e meno noto: Loca do Cabeço. È qui che l'Angelo della Pace apparve per la prima volta, prima ancora di Valinhos.

Il percorso è impegnativo, e incontro solo pochi pellegrini determinati lungo la strada. Il paesaggio cambia, diventa più aspro, più elementare. Rocce, ulivi contorti, un cielo che sembra più vicino.

Arrivo in una piccola radura dove un monumento semplice ricorda le apparizioni angeliche. Ma non è il monumento a catturare la mia attenzione, bensì la solitudine radicale del luogo. Per la prima volta comprendo visceralmente perché le tradizioni mistiche di tutte le religioni cercano il deserto, la montagna, la foresta profonda: non è solo per allontanarsi dalle distrazioni, ma perché in questi luoghi gli strati che separano i diversi livelli di realtà sembrano assottigliarsi.

Mi siedo su una roccia e chiudo gli occhi. Il vento porta odori di terra, di erbe selvatiche, di resina. In quel momento percepisco – non vedo, non sento, ma percepisco – una presenza. Non ha forma, non ha voce, è puramente presenza. È al contempo terrificante e pacificante.

Un brivido mi percorre la schiena nonostante il caldo. Non sto vivendo un'esperienza soprannaturale – sono troppo radicato nel razionale per reclamare visioni – ma sto sperimentando qualcosa che precede la divisione tra naturale e soprannaturale. È come se per un istante avessi accesso a un livello di percezione più ampio, dove i confini tra interno ed esterno, tra soggettivo e oggettivo, si dissolvono.

La sensazione svanisce rapidamente, lasciandomi con una strana nostalgia, come se avessi intravisto una patria dimenticata. Mi chiedo se i tre pastorelli abbiano provato qualcosa di simile, ma amplificato fino all'insostenibile.

La geografia luminosa del sacro: migliaia di candele disegnano un nuovo cielo a Fatima

Torno alla Cova di Iria al tramonto. La grande spianata si sta riempiendo. L'atmosfera è cambiata: c'è un'elettricità nell'aria, un'anticipazione.

Con l'arrivo del buio, inizia la processione delle candele. Migliaia di fiammelle si accendono una dopo l'altra, creando un fiume di luce che si muove lentamente attraverso la spianata. Da lontano, sembra un organismo vivente, una costellazione in movimento sulla terra.

Mi unisco alla processione, accettando una candela da un volontario. La proteggo dal vento con la mano, creando involontariamente un gioco di ombre sul mio volto. La sensazione della cera calda che occasionalmente gocciola sulle dita crea un curioso contrappunto: mentre partecipo a un rito spirituale, sono ancorato alla materia, alla fisicità, al piccolo dolore che mi ricorda di essere corpo.

La processione avanza lentamente mentre si recita il rosario in diverse lingue. Accanto a me, una famiglia spagnola con una bambina di circa sette anni. La piccola tiene la candela con entrambe le mani, completamente assorta. Osservando il suo viso illuminato dalla fiamma, mi colpisce una rivelazione: forse l'aspetto più miracoloso di Fatima non è ciò che accadde nel 1917, ma ciò che continua ad accadere ogni sera – questa trasmissione di luce di mano in mano, di generazione in generazione.

Mentre avanziamo, noto qualcosa di straordinario: le migliaia di voci che recitano il rosario non sono perfettamente sincronizzate. C'è un leggero sfasamento, un'eco, come se ogni preghiera fosse contemporaneamente individuale e collettiva. Questo ritardo, questa sovrapposizione imperfetta, crea una texture sonora che mi ricorda il mormorio di un fiume, qualcosa di organico piuttosto che meccanico.

La processione circonda la Cappellina delle Apparizioni. Da questa nuova prospettiva, con migliaia di candele che la circondano, la semplice struttura bianca non appare più fragile ma piuttosto protetta, custodita da un perimetro di luce pulsante.

Alzo lo sguardo verso il cielo notturno. Le stelle sono particolarmente brillanti stasera, formando il loro proprio candelabro cosmico. Per un istante, la distinzione tra sopra e sotto sembra dissolversi – le candele in terra riflettono le stelle in cielo, create la grandezza vertiginosa dell'universo nell'intimità di un gesto umano.

Quando il tempo smette di esistere: la veglia notturna che apre porte invisibili

La folla si disperde gradualmente dopo la processione, ma io resto. Alcune centinaia di pellegrini più determinati rimangono per la veglia notturna. I banchi all'aperto si riempiono solo parzialmente.

Mi siedo, sfinito ma stranamente vigile. La stanchezza fisica sembra aprire una diversa modalità di percezione, come se il corpo esausto cedesse il passo a una ricettività più sottile. La notte avanza, le preghiere continuano, ma a un certo punto smetto di seguirle consapevolmente.

Una sensazione peculiare mi avvolge: non è che il tempo si fermi, ma piuttosto che cessi di essere rilevante. C'è solo un eterno presente che contiene in sé tutti i momenti: i pastorelli che corrono tra gli ulivi, i pellegrini del secolo scorso, quelli di oggi, quelli che verranno. Tutti contemporaneamente presenti in questo punto dello spazio che sembra funzionare come un nodo nella trama del tempo.

A mezzanotte, quando la veglia ufficiale termina, alcune persone rimangono comunque, incapaci o non desiderose di spezzare l'incantesimo. Un uomo anziano accanto a me sta immobile, gli occhi chiusi, le mani appoggiate sulle ginocchia con i palmi rivolti verso l'alto. C'è qualcosa di così completo nella sua postura, come se avesse trovato il punto esatto di equilibrio tra vigilanza e abbandono.

Mi chiedo cosa stia vivendo, quali mondi interiori stia attraversando. Mi rendo conto che questa è forse l'unica vera domanda che conta a Fatima: non cosa sia veramente accaduto nel 1917, ma cosa accade ora, in questo momento, nell'esperienza viva di ciascuna persona che giunge qui.

La Madonna che si illumina dall'interno: l'alba a Fatima e il miracolo quotidiano della luce

L'alba mi coglie ancora sveglio. La luce portoghese, quella stessa luce che avevo notato all'arrivo, ora ritorna, rivestendo lentamente ogni cosa di una chiarezza nuova.

I primi raggi toccano la statua della Madonna nella Cappellina, creando l'illusione ottica che sia lei a illuminarsi dall'interno. Per un istante, la pietra sembra vivente, pulsante, come se la statua fosse solo un sottile velo su qualcosa di infinitamente più reale.

Mi alzo, le gambe indolenzite, la mente stranamente lucida nonostante la notte insonne. Cammino verso la Cappellina per un ultimo momento di raccoglimento prima di partire.

Una donna delle pulizie sta già lavorando, raccogliendo i resti di candele, sistemando i fiori freschi. C'è qualcosa di profondamente commovente in questo gesto quotidiano di cura. Mi colpisce che forse la vera devozione non sta nei grandi gesti o nelle esperienze estatiche, ma in questa umile manutenzione del sacro, in questo prendersi cura dello spazio che si apre tra visibile e invisibile.

Mentre mi allontano, voltandomi un'ultima volta verso la Cappellina, comprendo che ciò che porto via da Fatima non è una certezza, non è una risposta, ma piuttosto una domanda più raffinata. Non "È accaduto un miracolo qui?", ma "Cosa significa essere testimoni - non di un evento straordinario del passato, ma di questa continua intersezione tra visibile e invisibile che Fatima continua a facilitare?"

L'albero che ricorda tutto: la quercia centenaria di Fatima e il terzo segreto che nessuno può tradurre

Prima di lasciare definitivamente Fatima, faccio una deviazione non prevista. Ho sentito parlare di una quercia centenaria poco distante dalla Basilica, un albero che esisteva già ai tempi delle apparizioni, ma che pochi visitano.

La trovo dopo una breve ricerca. Maestosa, nodosa, con radici che emergono dal terreno come vene antiche. Mi colpisce come questa quercia sia una testimone silenziosa, l'unica creatura vivente che era presente nel 1917 e continua ad esserci oggi. Ha assorbito nella sua corteccia la luce di quel giorno, ha sentito le voci dei pastorelli, ha assistito all'intero secolo di pellegrinaggi.

Mi siedo sotto i suoi rami, appoggiando la schiena al tronco rugoso. Chiudo gli occhi e provo a immaginare cosa "ricordi" quest'albero. Non in senso umano, naturalmente, ma nel modo in cui un organismo vivente registra nel suo stesso corpo gli eventi che lo circondano.

In quel momento ho un'intuizione che capovolge la mia percezione di Fatima: e se il vero "terzo segreto" non fosse mai stato completamente rivelato non per qualche cospirazione ecclesiastica, ma perché è intraducibile in linguaggio umano? Se fosse qualcosa che può essere compreso solo attraverso una forma di conoscenza che precede le parole, come quella di un albero che assorbe luce, acqua, vibrazioni, senza mai nominarle?

La quercia non risponde, naturalmente. Continua semplicemente ad essere, con la pazienza di chi misura il tempo in secoli, non in ore.

Il viaggio invisibile: quando Fatima diventa una lente attraverso cui vedere il mondo ordinario

Salgo sull'autobus che mi riporterà verso la costa. Seduto accanto al finestrino, osservo Fatima rimpicciolirsi in lontananza. La grande cupola della Basilica, la spianata, tutto diventa gradualmente più piccolo finché non scompare dietro una collina.

Ma c'è qualcosa che non diminuisce con la distanza, qualcosa che sembra anzi espandersi man mano che mi allontano fisicamente dal luogo. È difficile da articolare, ma è come se avessi acquisito un nuovo organo di percezione, un senso aggiuntivo che prima era latente.

Un anziano pellegrino portoghese siede davanti a me. Nota che sto scrivendo sul mio taccuino e si volta. "Cosa scrive di Fatima?" mi chiede in un inglese stentato.

Esito. Come posso spiegare che non sto tanto scrivendo "di" Fatima, quanto permettendo a Fatima di scrivere attraverso di me? Come posso dire che ciò che ho vissuto nelle ultime 24 ore ha creato in me uno spazio che ora sembra abitare?

"Sto cercando di ricordare," rispondo semplicemente.

L'uomo sorride, come se avessi detto qualcosa di profondamente significativo. "Non si preoccupi del ricordo," dice. "Ciò che Fatima le ha dato non lo dimenticherà, perché non è nella sua memoria, è nella sua anima. E l'anima non dimentica, anche quando la mente non ricorda più."

Queste parole, pronunciate con la saggezza semplice di chi ha fatto questo pellegrinaggio molte volte, mi colpiscono profondamente. Mi fanno comprendere che il vero viaggio di Fatima non è quello geografico, né quello storico alla ricerca di ciò che accadde nel 1917. Il vero pellegrinaggio è quello invisibile, il cammino interiore che inizia veramente solo quando si lascia Fatima, quando si porta nel mondo ordinario quella qualità di percezione che il luogo risveglia.

L'autobus attraversa paesaggi di straordinaria bellezza: colline ondulate, oliveti, vigneti, piccoli villaggi con case dai tetti rossi. La luce portoghese continua a farsi notare, ora illuminando un campanile in lontananza, ora filtrando attraverso le foglie di un eucalipto.

Mi rendo conto che sto vedendo questo paesaggio con occhi nuovi, come se la luce che ho assorbito a Fatima avesse modificato la mia percezione. Non è una questione di maggiore religiosità o di conversione improvvisa – è piuttosto come se un filtro sottile fosse stato rimosso, permettendomi di vedere le cose con maggiore immediatezza, con meno interpretazione.

Il messaggio più profondo di Fatima, comprendo ora, non riguarda eventi apocalittici o segreti cosmici. Riguarda piuttosto questa possibilità di percezione rinnovata, questo invito a vedere il mondo ordinario trasfigurato dalla luce straordinaria che filtra attraverso le sue crepe.

Mentre l'autobus procede verso la costa e il sole inizia a calare sull'Atlantico, mi ritrovo a sorridere. Ho iniziato questo viaggio cercando il "vero segreto di Fatima", ma ciò che ho trovato è molto più semplice e insieme più misterioso: l'invito a vivere in uno stato costante di attenzione allargata, dove il confine tra quotidiano e sacro si dissolve non perché il quotidiano scompaia, ma perché venga visto nella sua reale profondità.

Fatima non è dietro di me. È davanti. È nel modo in cui da ora in poi guarderò ogni alba, ogni volto umano, ogni pietra sul sentiero, riconoscendo in essi non simboli di qualcosa d'altro, ma manifestazioni complete, incarnate, del mistero stesso dell'esistere.

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