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Santa Rita, tu che sei stata madre: conosci l’attesa, la paura, la pazienza. In un tempo di carestia d’amore, insegnaci a tenere la porta socchiusa anche quando fa male.

Quando la casa fa silenzio

La cucina è in ordine, ma manca una tazza. Il telefono di Luca è spento da ore. Maria gira il cucchiaino nel latte per non far girare a vuoto i pensieri: chiamarlo ancora? Aspettare? Fingere indifferenza? Ogni madre conosce questo bivio, dove l’amore è forte ma non sa più da che parte spingere. Maria una cosa la sa: vuole continuare ad amare bene, senza cedere al rancore e senza trasformare la paura in controllo.

La decisione che cambia il passo: andare a Cascia

Una mattina, dopo l’ennesima notte lunga, Maria decide: vado a Cascia. Non per scappare, ma per guardare in faccia la sua impotenza. Prende un foglio, scrive il nome di suo figlio in stampatello grande, lo piega con cura e parte. Il viaggio ha il ritmo delle domande che non trovano risposta, ma anche di una speranza piccola che vuole un posto dove stare.

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Davanti a Santa Rita

Al Santuario non ci sono palchi. C’è il profumo di cera, la pietra che regge, il silenzio che non giudica. Maria fa tre gesti semplici: accende una candela, posa una rosa, affida un biglietto con il nome di Luca. Le parole sono poche e precise: “Tienilo tu, quando io non riesco. Insegnami la pazienza che apre e non sbarra”. Santa Rita — che conosce la fatica dell’amore quando graffia — diventa per Maria una compagnia concreta: non promette scorciatoie, le fa spazio dentro il cuore.

Il ritorno: passi concreti e quotidiani

Tornata a casa, Maria cambia passo. Non aspetta un segno spettacolare: si affida a cose semplici e forti.

Questo non le toglie il dolore, ma le restituisce un modo di stare dentro il dolore senza esserne divorata. Cascia non ha chiuso la storia: l’ha illuminata.

Il varco che si apre

Una sera, quasi in sordina, arriva un messaggio: “Mamma, ci sei?”. Poi una telefonata timida: “Ci vediamo?”. L’incontro è semplice, imperfetto, ma vero. Le parole inciampano, poi rallentano, poi trovano una cadenza nuova. Luca accetta un percorso serio; taglia legami che lo tiravano giù; ricomincia a studiare/lavorare con discrezione. Non è discesa né finale in musica: è strada aperta. E l’aperto, quando per mesi hai visto solo muri, è già una festa.

Oggi: albe piccole, ma vere

La tazza è tornata al suo posto. Non tutte le mattine sono facili, ma i dialoghi sono più calmi. Maria ha smesso di pretendere risposte perfette: preferisce custodire i progressi possibili. Ogni tanto torna con la memoria a quella candela a Cascia e ringrazia: non per un colpo di scena, ma per un passo sostenuto nel tempo. Sa che i giorni fragili torneranno; sa anche che non sono padroni della storia.

Perché Cascia è stata decisiva

Perché lì Maria ha capito che l’amore non coincide con il controllo e che la speranza ha bisogno di gesti concreti: accendere una luce quando tutto è buio, affidare un nome quando non sai più come chiamarlo, imparare parole che non feriscono. Santa Rita non ha cancellato il cammino; lo ha reso percorribile. Questo ha rimesso in moto madre e figlio.

Nota di identità

Questa è una storia vera.
Qui l’amore testardo di una madre, la cura e il tempo hanno camminato insieme alla discreta compagnia di Santa Rita.
Non vendiamo promesse: raccontiamo strade percorribili, dove la speranza prende fiato nei gesti semplici e torna, un giorno alla volta, a casa.

Testimonianza personale: non promette soluzioni “magiche”. Racconta un cammino reale, fatto di preghiera, scelte e passi quotidiani.

Quando dire “basta” non basta

La panca era la stessa, loro no.
Marco e Anna sedevano distanti: poche parole, sguardi che scivolavano altrove, un “basta” pronunciato troppe volte.

A Cascia, davanti a Santa Rita, non hanno trovato una formula—hanno trovato un inizio.

Il Santuario profumava di cera e silenzio; una rosa, appoggiata ai piedi della Santa, sembrava dire: “prova ancora, ma con un cuore nuovo.”

Perché Santa Rita parla proprio alle coppie

Rita non è un’idea: è una donna concreta che ha attraversato tutto ciò che spezza i legami.
Fu moglie in un matrimonio difficile, segnato da contrasti e violenza; scelse la mitezza non come rassegnazione, ma come forza che non risponde al male con altro male. Divenne madre e conobbe la paura che i figli si perdessero dietro la vendetta; li affidò a Dio chiedendo che non si macchiassero di sangue. Rimase vedova, e invece di indurire il cuore operò per la pace tra famiglie nemiche. Più tardi entrò tra le Agostiniane di Cascia, portando nel chiostro le ferite trasformate in intercessione.

Per questo la invocano come Santa degli impossibili e patrona di chi ama “con i pezzi in mano”:

Rita non cancella la storia, apre una strada dentro la storia.

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Il primo passo: smettere di avere ragioneI

l perdono non si fa in un giorno. Il primo gesto è stato abbassare la voce, smettere di fare l’elenco delle colpe e chiedere perdono per la propria parte.
«Mi dispiace» è venuto piano, senza spettacolo.

Poi un secondo passo: “proviamo con qualcuno che ci aiuti”—un riferimento concreto, un percorso serio.

Pregare e imparare strumenti nuovi: ascoltare senza interrompere, parlare senza ferire, riconoscere i limiti.

Un cammino, non uno schiocco

Nessun muro è caduto di colpo: ha smesso lentamente di stare in mezzo.

La routine è diventata palestra: un pranzo insieme senza telefoni, una passeggiata dopo cena, una benedizione ricevuta con gratitudine. L

itigi? Ancora, ma più brevi.

Ferite? Presenti, ma non al timone.

In Santuario sono tornati una seconda volta, qualche mese dopo, con una rosa diversa: “grazie perché non ci siamo arresi.”

Cosa resta (oggi)

Non la perfezione, ma una fedeltà possibile.

Una lingua più mite—“io sento” al posto di “tu fai sempre”.

Un momento fisso per parlare bene, non solo discutere. Una preghiera breve la sera: due righe, due nomi, una benedizione reciproca. Il rancore non è scomparso per magia: ha perso la sedia al centro della stanza.

Nota di prudenza (e speranza)

Questa è la storia di due persone concrete. Non è una formula, non è una garanzia.È una strada che si è riaperta: preghiera, aiuto competente, gesti piccoli e costanti.A Cascia, davanti a Santa Rita, Marco e Anna hanno trovato il coraggio di ricominciare bene.Non hanno fatto altro che rivolgersi a Santa Rita, così come è stata sposa.
Ha conosciuto i giorni in cui l’amore faceva fatica a respirare e le parole diventavano spine.
C’era però un filo d’oro che non si spezzava: l’amore che ricuce, piano, dentro le stesse cose di sempre.
Hanno imparato a perdonarsi senza spettacolo, a ricominciare senza clamore,
a scegliere ogni giorno un bene possibile. E le cose cambiano.

Una salita vera: cura, fede, giorni buoni e giorni duri. Nessuna scorciatoia. Solo passi che, piano, trovano strada.

Pellegrino che accarezza il volto della statua di Santa Rita da Cascia, gesto di fede e invocazione di guarigione miracolosa.

La spina di Santa Rita: un segno che avvicina chi soffre

Mi piace pensare a Santa Rita con il segno della spina sulla fronte. Secondo la tradizione, nel 1432, davanti al Crocifisso nella chiesa di Cascia, Rita chiese di condividere le sofferenze di Cristo: una spina della corona si staccò e le si conficcò nella fronte.
Da allora, per quindici anni, quella ferita rimase aperta e profumata, dolorosa eppure accolta con amore. Si riaccendeva nelle ore di preghiera; e per delicatezza verso le consorelle, Rita scelse spesso il nascondimento.
Non è un dettaglio pietoso: è un linguaggio. Dice che c’è una strada per stare dentro il dolore senza esserne divorati. Per questo, chi affronta malattie e prove “impossibili” si sente vicino a lei.

La storia di Paolo.

La diagnosi: un colpo secco

Arriva la frase che non vuoi sentire. Paolo, papà di due bimbi, guarda l’orologio ma il tempo non si muove.
Cartelle, appuntamenti, terapie: la vita si stringe, la casa fa silenzio. Non è resa: è la concentrazione di chi allaccia gli scarponi.

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La scelta: curarsi e affidarsi

La prima decisione è semplice e forte: curarsi bene. Medici, protocolli, disciplina. La seconda nasce dove le mani tremano: affidarsi.
Una preghiera breve ogni sera, il nome di Santa Rita ripetuto come un respiro. Non per magia: per forza.

Cascia: una candela, una frase, un passo

A Cascia non ci sono palchi. C’è una candela, una rosa, e una frase ascoltata quasi per caso: “la santità non cancella la storia, la illumina”.
Paolo la mette in tasca. Torna a casa con la stessa terapia, ma con il cuore un po’ più diritto.

I mesi dopo: referti, soglie, sorprese

Si cammina. Esami, controlli, attese in corridoio. Gli indicatori cominciano a spostarsi; le parole dei medici diventano cautamente positive.
Nessuno schiocco di dita, nessun “tutto e subito”: solo una curva che cambia verso, piano ma chiaramente. L’inatteso prende corpo.

Oggi: una gratitudine che non fa rumore

Paolo non alza bandiere. Ringrazia. La competenza dei medici, la pazienza di chi gli sta accanto, la compagnia discreta di Santa Rita.
Non cerca spiegazioni perfette: custodisce il bene ricevuto. A Cascia promette di tornare, senza chiedere segni: per dire grazie.

Nota di identità

Questa è una storia vera.
Qui la scienza ha fatto la sua parte, la fede ha tenuto la mano, e il tempo ha compiuto il resto.
Non vendiamo promesse: raccontiamo strade di bene percorribili, dove cura e preghiera camminano insieme con rispetto e pudore.

Perchè come Santa Rita ha portato una spina.
Gesù a lei, Non ha tolto il dolore dal mondo: gli ha insegnato a cambiare volto.
Ecco perchè chi soffre trova ancora cura, coraggio e quella pace sottile
che regge il passo quando le parole finiscono.

Il Santuario di Collevalenza si svela al pellegrino come un'oasi di pace tra le colline umbre. Qui, dove Madre Speranza ha costruito la sua "clinica dell'anima", ogni giorno centinaia di fedeli cercano conforto, speranza e guarigione.

Santuario di Collevalenza dedicato alla Beata Speranza di Gesù, luogo di pellegrinaggio e miracoli nel cuore dell’Umbria.

La Storia del Santuario

"Costruirete qui un grande Santuario" disse Madre Speranza nel 1953, indicando una collina deserta.

Nessuno poteva immaginare che da quel terreno sarebbe sorto uno dei centri spirituali più importanti d'Italia.

Oggi, la maestosa Basilica si erge come testimonianza della sua fede incrollabile.

La costruzione, iniziata nel 1953 e completata nel 1965, fu segnata da eventi straordinari.

La scoperta dell'acqua miracolosa nel 1960 confermò la profezia di Madre Speranza: "Qui sgorgherà un'acqua speciale, segno dell'Amore Misericordioso."

L'Accoglienza delle Ancelle

Le suore dell'Amore Misericordioso ti accolgono con un sorriso che ricorda quello di Madre Speranza.

La Casa del Pellegrino, con i suoi corridoi silenziosi e le stanze semplici ma confortevoli, diventa subito la tua seconda casa.

"Madre Speranza ci ha insegnato che l'accoglienza è il primo atto d'amore,"
racconta Suor Maria Teresa.
"Ogni pellegrino che arriva è Gesù che bussa alla nostra porta."

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La Vita Quotidiana nella Casa

Il ritmo della giornata è scandito da momenti di preghiera e condivisione:

Il Cuore del Santuario

La Basilica dell'Amore Misericordioso è un capolavoro di architettura sacra moderna. Il grande Crocifisso, realizzato secondo le precise indicazioni di Madre Speranza, rappresenta Gesù non nella sofferenza ma nell'atto di abbracciare l'umanità.

"Il Crocifisso deve mostrare l'amore, non il dolore," diceva Madre Speranza.

E infatti, chi lo guarda si sente accolto, non intimidito.

I Luoghi della Preghiera

Il Santuario offre diversi spazi per la preghiera:

L'Esperienza delle Piscine

"Quest'acqua,"
diceva Madre Speranza,
"sarà fonte di grazie per chi si immerge con fede, un segno tangibile dell'Amore Misericordioso di Dio.

Nel 1960, Madre Speranza indicò con precisione il punto dove scavare: "Qui troverete acqua in abbondanza."
Gli operai, inizialmente scettici, scavarono trovando solo roccia.
A 122 metri di profondità, improvvisamente, sgorgò un'acqua purissima.
La portata era così abbondante che ancora oggi alimenta tutte le strutture del Santuario.

Le Piscine Oggi

Le piscine sono strutturate in due aree separate per uomini e donne. Ogni area comprende:

Il percorso delle piscine è un momento sacro che richiede preparazione spirituale e fisica.

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La Preparazione Spirituale

  1. Colloquio iniziale con un sacerdote o una suora
  2. Momento di riflessione e preghiera personale
  3. Lettura della Parola di Dio
  4. Possibilità di confessione

Il Bagno nell'Acqua Benedetta

"L'acqua è solo un segno,"
spiegano le suore.
"Il vero miracolo è l'incontro con l'Amore Misericordioso."

Il bagno avviene in un'atmosfera di profondo raccoglimento:

L'Acqua Miracolosa

L'acqua mantiene una temperatura costante di 22 gradi. Le sue caratteristiche:

I Piccoli Miracoli Quotidiani

Suor Lucia, che lavora nelle piscine da vent'anni, racconta:
"Non sono solo le guarigioni fisiche a essere miracolose.
Vediamo persone che ritrovano la fede,
famiglie che si riconciliano,
cuori che guariscono da ferite antiche."

Testimonianze di Grazia

Maria da Verona:
"Sono venuta per un problema alla schiena, ho trovato la guarigione dell'anima."

Giovanni da Milano:
"Le piscine mi hanno fatto scoprire un Dio che è davvero Padre Misericordioso."

Anna da Torino:
"Qui ho ritrovato la pace che cercavo da anni."

La Spiritualità di Madre Speranza

Il museo dedicato a Madre Speranza conserva oggetti e documenti che raccontano la sua vita straordinaria:

"Questi oggetti semplici,"
spiega Suor Angela,
"raccontano una vita straordinaria spesa per far conoscere l'Amore Misericordioso."

Il Parco del Santuario

I vasti giardini offrono spazi per la meditazione e la preghiera:

L'Eredità di Madre Speranza

Oggi il Santuario continua la missione della sua fondatrice:

Pellegrinaggi Organizzati a Collevalenza

Con Bianco Viaggi, l'esperienza di Collevalenza diventa accessibile a tutti. Organizziamo:

Per i Gruppi

Offriamo pacchetti personalizzati che includono:

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Nel Santuario dell'Amore Misericordioso, l'abbraccio di Madre Speranza continua ad accogliere chi cerca pace e guarigione. Qui, ogni giorno, si rinnova il miracolo dell'incontro tra la sofferenza umana e la misericordia divina.

Una madre che non molla. Un figlio in silenzio. L’Amore Misericordioso che diventa compagnia dentro la corsia.

Pellegrino raccoglie l’Acqua dell’Amore Misericordioso presso il Santuario di Collevalenza, fonte di conforto per corpo e anima.

La chiamata di mercoledì

“Era un normale mercoledì sera quando squillò il telefono.”
Maria, 52 anni, di Firenze, ricorda la voce che si spezzava: Andrea, 23 anni, aveva avuto un grave incidente in moto. “Le prime 48 ore saranno decisive”, dissero. Le ore diventarono giorni; i giorni, settimane. Andrea non si svegliava. In reparto i monitor parlavano al posto suo, con numeri che sembravano non voler salire. Le parole dei medici erano oneste, e pesanti.

Le ore che non passano

Quando la speranza si assottiglia, la corsia ha un suono diverso. Sedie pieghevoli, caffè freddi, finestre che non raccontano il cielo. Maria appoggiava la mano vicino alla spalla di suo figlio, come per dirgli “io ci sono”. Le lesioni erano importanti; nessuno prometteva strade facili.

“Vai a Collevalenza”

Un’amica, Teresa, mostrò a Maria un breve video sul telefono: il Santuario dell’Amore Misericordioso, l’acqua, la gente che entrava e usciva in silenzio. “Non è una scorciatoia,” le disse, “ma là c’è pace. Vai a cercarla.”
Maria non aveva ricette da provare, ma aveva ancora passi da compiere. Decise: Collevalenza.

L’arrivo: una pace diversa

La chiesa respirava piano. Le Ancelle la accolsero con quella delicatezza che non invade. “Mi prepararono all’immersione nelle piscine come una madre prepara il figlio a un bagno: con calma e rispetto,” dirà poi. Maria strinse forte la foto di Andrea. L’acqua non era un talismano: era il segno concreto di una misericordia che non scappa davanti al dolore. “Non ti chiedo magie,” sussurrò, “tieni tu quello che a noi scivola dalle mani.”

La strada del ritorno

La stessa giornata, di nuovo in ospedale. Stessa luce al neon, stesse porte a spinta. Ma qualcosa, in Maria, aveva cambiato verso: lo sguardo più diritto, il fiato più lungo. La notte non fu meno lunga; fu abitata. La mattina, i monitor cominciarono a disegnare un’attività cerebrale diversa. Nessuno gridò al miracolo; tutti continuarono a fare, bene, il proprio pezzo.

Tre giorni dopo

Al terzo giorno, Andrea aprì gli occhi. Ci sono momenti che non si raccontano: si respirano. Un lampo di riconoscimento, un movimento delle dita, un nome sussurrato. L’équipe chiamò il primario; si parlò di caso eccezionale, di ripresa rapida. Maria non cercò frasi da incorniciare: aveva un solo verbo addosso, grazie.

Ripartire

La convalescenza fu seria, com’è giusto. Andrea ricominciò a camminare, a parlare, a mettere in fila giorni normali. Tornò agli studi, si laureò. “Non ricordo il coma,” dice, “ma quando torno a Collevalenza sento una pace precisa, come se il corpo ricordasse una cosa che la mente non sa dire.”
Ogni anno, madre e figlio ritornano al Santuario: accendono una candela, si fermano in cripta, bevono una goccia d’acqua, affidano nomi di altri a cui vogliono bene. Non per chiedere: per ringraziare.

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Ciò che resta

Resta l’umiltà di chi ha visto quanto siamo fragili. Resta la gratitudine per i medici che hanno fatto il meglio, per le Ancelle che hanno accompagnato senza frastuono, per un’acqua che ha reso abitabile il tempo più duro. Resta la scelta di stare nelle cose con fiducia, un giorno dopo l’altro.

Nota di identità

Questa è una storia vera. Qui la cura ha fatto la sua parte, la preghiera ha tenuto la mano, e il tempo ha compiuto il resto. Non promettiamo nulla: raccontiamo strade percorribili, dove Collevalenza diventa una compagnia dentro la fatica.

Una nonna che non molla. Un nipote che lotta. Un bambino che crede. Collevalenza come compagna di strada.

L’Inizio di Tutto

“Era una normale visita di controllo,” ricorda Lucia, 45 anni, insegnante di Padova. “Mamma — Maria — aveva solo un po’ di stanchezza e qualche dolore addominale. Mai avremmo immaginato che quella visita avrebbe cambiato le nostre vite.”
La diagnosi fu impietosa: tumore al pancreas in fase avanzata, con metastasi al fegato. I medici furono chiari: il tempo era poco, tre o quattro mesi. Le opzioni terapeutiche erano limitate e molto gravose. In casa calò un silenzio nuovo.

Una Famiglia nella Tempesta

Maria aveva 72 anni e una famiglia che la adorava: tre figli, cinque nipoti, una casa sempre aperta. “Come spieghi a dei bambini che la loro nonna sta per andarsene?” si domandava Lucia ogni notte.
“Il più difficile era mantenere la normalità,” racconta Paolo, il figlio maggiore. “Mamma non voleva che i nipoti la vedessero soffrire. Continuava a cucinare le sue famose tagliatelle, a raccontare storie, a sorridere. Ma noi vedevamo che ogni gesto le costava sempre più fatica.”

La Fede di un Bambino

Fu Matteo, 8 anni, il più piccolo dei nipoti, a cambiare il corso degli eventi. Un giorno, tornando dal catechismo, disse:
Nonna, la maestra ci ha parlato di un posto speciale, vicino ad Assisi. C’è un’acqua benedetta che fa guarire le persone. Dobbiamo andarci!
All’inizio la famiglia era scettica. “Mamma faceva fatica anche solo ad alzarsi dal letto,” ricorda Lucia. “Un viaggio sembrava impossibile.”
Ma Matteo non si arrese. Ogni sera pregava davanti all’immagine di Madre Speranza che gli aveva regalato la catechista. “Vedevo mio figlio inginocchiato accanto al letto, con quella fede pura che solo i bambini possono avere,” racconta Lucia. “Fu quella fede a convincerci.”

Il Viaggio: Collevalenza

Partirono una mattina presto. In borsa misero poche cose: un rosario, un biglietto con il nome di Maria, una bottiglietta vuota. La strada verso Collevalenza aveva il rumore delle domande senza risposta e il passo corto della speranza.
Arrivati al Santuario dell’Amore Misericordioso, entrarono in chiesa in punta di piedi. Maria si sedette in fondo, per non disturbare. Accesero una candela, sussurrarono un grazie e una richiesta semplice: “Tienici quando noi non ce la facciamo”.

L’Acqua che non è Magia

Poi si avvicinarono alla fontana. Lì l’acqua è un segno: non un talismano, ma una memoria viva di misericordia. La nonna riempì la bottiglietta con calma; Matteo le mise accanto l’immagine di Madre Speranza. “Portiamo qualcosa di buono a casa,” disse piano, “come le primizie dell’orto.” Nessuna voce dal cielo, nessun bagliore: solo un gesto concreto che rimetteva la schiena dritta.

Tornare a Casa (e Restare Presenti)

Si tornò in reparto. La vita riprese il suo ritmo: terapie, parametri, attese. Non cambiò tutto e subito, ma qualcosa cambiò verso. Le notti furono un po’ più quiete; il dolore, più gestibile. Le parole dei medici rimasero prudenti, ma si fecero meno severe. In famiglia impararono a ringraziare i millimetri di bene senza pretendere chilometri.
L’acqua benedetta stava sul comodino. A volte una goccia sulla fronte, altre soltanto lo sguardo che tornava a respirare. Matteo continuava la sua piccola preghiera serale: era il loro patto.

Giorni che si Rimettono in Moto

Il tempo, senza fare rumore, cominciò a lavorare. Le visite segnarono una stabilità inattesa; i nipoti tornarono a sedersi intorno al tavolo con la nonna. Non era un trionfo; era strada aperta dove prima sembrava solo muro. E quel poco bastava per riempire una giornata di gratitudine.

Il Ritorno Promesso

Quando arrivò il momento di tornare a Collevalenza, non portarono grandi discorsi: una candela e una rosa. Maria, più lenta ma dritta, sussurrò: “Grazie”. Matteo appoggiò accanto alla fontana l’immagine di Madre Speranza e un fiore “per chi ha ancora paura”. Non cercavano spiegazioni perfette: riconoscevano il bene e lo custodivano.

Oggi: Ciò che Resta

Resta un quaderno con poche righe di gratitudine la sera. Resta la tavola apparecchiata con calma, senza fretta. Resta una bottiglietta sul ripiano della cucina: non una formula, ma il ricordo di una strada percorribile fatta di cura, tempo, preghiera, presenza. E resta la fede di un bambino che ha insegnato agli adulti a non smettere di credere.


Nota di identità

Questa è una testimonianza personale. Qui la cura ha lavorato con pazienza, la preghiera ha dato fiato e l’acqua benedetta di Collevalenza è stata un segno di fiducia, non una magia. Non promettiamo nulla: raccontiamo strade possibili dove la gratitudine impara il passo del quotidiano.

Anni d’attesa, cure, porte chiuse. Una zia che sussurra “andate a cercare la pace”. Collevalenza, l’acqua, il pianto che libera. E una bambina nata nel giorno di Madre Speranza.

Un sogno che non si spegne

“Ci siamo sposati giovani, pieni di sogni,” dice Anna, 38 anni. “Pensavamo che avere figli sarebbe stata la cosa più naturale del mondo.” I primi tempi scorrono leggeri; poi arrivano le visite, gli esami, la diagnosi che non consola: infertilità idiopatica. “È frustrante quando non hai un nemico da nominare,” confida. Non c’è un perché da combattere: c’è solo un tempo che si allunga senza risposte.

Il calvario dei trattamenti (e quello del cuore)

Cure ormonali, inseminazioni, due FIVET: ogni tentativo è una salita. Le spese crescono; anche la distanza tra Anna e Marco. “La nostra intimità era diventata un elenco di procedure,” raccontano. E poi le feste di famiglia: sorrisi stretti, domande stonate, battesimi evitati. “Ogni mese sperare e poi ricominciare da capo,” dice Marco. È una stanchezza che non urla: rosicchia.

La voce di una zia (e una frase che resta)

La svolta non arriva in clinica ma su una panca di chiesa. Zia Teresa, donna di fede tersa, non propone “ricette miracolose”: “Andate a Collevalenza. Non per ottenere, ma per trovare pace.” Nessuna illusione, nessuna promessa. Solo un invito a respirare in un luogo dove qualcuno capisce prima ancora che tu spieghi.

L’arrivo al Santuario: riconoscersi attesi

Varcata la soglia del Santuario dell’Amore Misericordioso, Anna avverte una pace diversa: non è l’ospedale dei corridoi freddi. Le suore accolgono con delicatezza: ascoltano, orientano, non invadono. “Sembrava sapessero senza bisogno di parole,” dice Marco. È la prima fessura di luce dopo anni.

Le piscine: il pianto che libera

La preparazione alle piscine non promette miracoli. “Ci hanno aiutati a guardare la nostra storia con occhi nuovi,” ricorda Anna. L’immersione è il cuore del racconto: acqua, mani che sostengono, silenzio. “Ho pianto tutte le lacrime trattenute per anni,” dice con la voce che trema. “Per la prima volta non ho chiesto un figlio; ho chiesto di accettare la volontà di Dio.”
Marco, accanto, sente un peso scendere: “Per la prima volta in dieci anni, ho capito che potevamo essere pieni anche senza figli.” Non è rassegnazione: è abbandono fiducioso.

Il ritorno: imparare a vivere di nuovo

A casa non cambia “tutto e subito”. Cambia il verso. Si ricomincia a ridere, a fare progetti che non ruotano attorno ai cicli, a riconoscere il bene fuori dai referti. Anna e Marco sospendono i trattamenti: non per resa, ma per pace. Il loro amore torna ad avere la forma di due persone intere, non di due pazienti sotto calendario.

Tre mesi dopo: lo stupore

Un ritardo. Un test. “Positivo,” sussurra Anna. Lo rifà tre volte. Sempre positivo. La gravidanza scorre bene; i medici sono prudenti e sinceri: “non sappiamo spiegare”. In casa non si fanno proclami: si impara a ringraziare piano, giorno per giorno.

L’8 febbraio

La bambina nasce l’8 febbraio, festa di Madre Speranza. “Non poteva chiamarsi che Speranza,” sorride Anna. Il nome non è un trofeo: è una memoria. Memoria del pianto nell’acqua, della frase della zia, del passo riconsegnato alla vita.

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Oggi: una gratitudine che diventa strada

Oggi la famiglia torna spesso a Collevalenza. Accendono una candela, dicono un grazie che non si consuma. A volte accompagnano altre coppie: non fanno promesse, non insegnano formule. Ascoltano. Raccontano che a volte il miracolo non è ottenere ciò che desideri ma trovare pace, e che, proprio in quella pace, la vita può riaprirsi dove non guardavi più.

Nota di identità

Questa è una storia vera. Qui cura, tempo e preghiera hanno camminato insieme. Collevalenza non è una bacchetta magica: è un luogo che illumina la storia. Non promettiamo nulla; raccontiamo strade percorribili, dove la gratitudine impara il passo del quotidiano.

Antonio, la nostra guida, ci riporta l'esperienza di Sara che al ritorno dal pellegrinaggio ha scritto lui una mail.

"Ciao Antonio, sono Sara,
ti ricordi di me? Sono la ragazza seduta in terza fila sul pullman.

Suora francescana in preghiera al Santuario della Verna, luogo di silenzio e spiritualità legato alla memoria di San Francesco d’Assisi.

Sono partita cercando Francesco, ho trovato me stessa.
Non è la solita frase fatta,
piuttosto quello che accade quando ti abbandoni al richiamo di questi luoghi sacri.

Pensavo di conoscere Assisi, di sapere cosa aspettarmi.

Avevo letto guide, guardato foto, ascoltato racconti.

Ma niente, assolutamente niente, poteva prepararmi a quello che ho vissuto in questi tre giorni con le guide di Bianco Viaggi.

Il primo impatto è stato quasi violento nella sua bellezza.

Assisi ti assale con la sua spiritualità,
ti avvolge in un abbraccio fatto di pietre antiche e silenzi assordanti.

Mi sono ritrovata a vagare per vicoli che sembravano chiamarmi, a fermarmi davanti a portoni secolari, a respirare un'aria che sapeva di incenso e di eternità.

Non è stato un semplice pellegrinaggio - è stato un viaggio nell'anima.

Ogni passo una rivelazione, ogni sosta una scoperta.

Mi sono persa nelle stradine medievali per ritrovarmi nei luoghi dove Francesco ha camminato.

Ho pianto, senza sapere perché, davanti alla sua tomba.

Ho sentito il cuore scoppiare di gioia nella semplicità della Porziuncola.

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E quando pensavo di aver già vissuto il momento più intenso,
ecco che La Verna mi ha mostrato cosa significa davvero essere "piccoli" di fronte all'immensità del divino.

Nel cuore della Basilica

La Basilica di San Francesco è stata uno schiaffo all'anima.
Gli affreschi di Giotto non sono più semplici opere d'arte - sono finestre sul divino che ti travolgono con la loro potenza narrativa.
Ho visto pellegrini entrare sorridenti e uscire con le lacrime agli occhi.
Ho capito il perché quando sono scesa alla tomba del Santo.

Lì, nel silenzio della cripta, il tempo si è fermato.
Non ero più una turista,
una pellegrina,
una visitatrice.

Ero semplicemente un'anima nuda davanti a una presenza che attraversava i secoli. Sono rimasta immobile, incapace di muovermi,
mentre le lacrime scendevano senza controllo.

Non erano lacrime di tristezza - erano lacrime di riconoscimento, come quando ritrovi qualcosa che non sapevi di aver perso.

L'incontro con Chiara

La Basilica di Santa Chiara mi ha mostrato un altro volto della santità - quello della determinazione femminile che sfida le convenzioni per seguire una chiamata più alta.

Davanti alla sua tomba, ho sentito la forza di quella giovane nobildonna che aveva osato sfidare la sua epoca.

Il crocifisso che le parlò è ancora lì, testimone silenzioso di una rivoluzione d'amore che continua a ispirare.

L'Eremo: dove il silenzio grida

La salita all'Eremo delle Carceri è stata una purificazione.
Ogni passo sul sentiero che si inerpica tra i lecci secolari era un passo verso l'essenziale.
Qui Francesco cercava il silenzio, e quel silenzio oggi ti penetra nelle ossa.
Mi sono seduta accanto alla sua grotta e ho sentito il peso di tutti i rumori inutili che riempiono le nostre vite.
Nel silenzio dell'Eremo, ho sentito per la prima volta la voce della mia anima.

San Damiano: la semplicità che salva

A San Damiano ho toccato con mano la "perfetta letizia".

Il convento è rimasto quasi intatto - un miracolo di semplicità che ti riporta alle origini. Ogni pietra racconta una storia di rinuncia che è in realtà un ritrovamento.

Nel piccolo chiostro, tra il dormitorio di Santa Chiara e il refettorio delle clarisse, ho capito che la vera ricchezza sta nel liberarsi del superfluo.

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La Porziuncola: il cuore che batte

Santa Maria degli Angeli custodisce il gioiello della Porziuncola come uno scrigno prezioso.
Entrare in questa minuscola chiesa dentro la chiesa è come attraversare un portale temporale.
Qui Francesco ha amato, pregato, pianto, gioito.
Qui ha accolto Chiara, qui ha vissuto con i primi frati, qui ha chiuso gli occhi alla vita terrena.
Il roseto accanto è ancora lì, con le sue spine e le sue rose - perfetta metafora di una vita che trasforma il dolore in bellezza.

L'incontro con Carlo Acutis

E poi c'è stato l'incontro inaspettato con Carlo.

Nel Santuario della Spogliazione, davanti alla sua tomba, ho visto il miracolo di una santità contemporanea.
Un ragazzo del nostro tempo, con la passione per i computer e internet, diventato faro per i giovani di oggi.
La sua frase "L'Eucarestia è un'autostrada verso il Cielo"
mi ha colpito come un fulmine.
L'ho vista riflessa negli occhi dei giovani pellegrini che pregavano accanto a me, smartphone in mano - proprio come avrebbe fatto lui e nel contempo vivevano la Messa davvero come l'avrebbe vissuta Carlo Acutis.

La Verna: dove il cielo bacia la terra

L'ultimo giorno, La Verna mi ha mostrato cosa significa essere trasfigurati.

Il monte era avvolto nella nebbia, come se il cielo volesse proteggere i suoi segreti. Il santuario emerge dalla roccia viva come una preghiera di pietra.

Ho percorso corridoi scavati nella montagna, scoperto cappelle nascoste, sostato tremante davanti al precipizio dove Francesco ricevette le stigmate.

La Messa nella Basilica è stata il culmine di un'esperienza che mi ha trasformata.

Le voci dei frati che cantavano, l'incenso che saliva verso le volte, la luce che filtrava dalle vetrate - tutto parlava di un mistero
che finalmente potevo sfiorare con mano.

Il ritorno, ma non sono più io

Sono tornata a casa, ma non sono più la stessa persona che era partita.
Non sono solo i luoghi visitati o le preghiere recitate.
È qualcosa di più profondo, più intimo.
Ad Assisi e alla Verna ho ritrovato parti di me che non sapevo di aver smarrito.
Ho riscoperto il valore del silenzio, la bellezza dell'essenziale, la forza della vulnerabilità.

Questo pellegrinaggio mi ha insegnato che la vera ricchezza sta nel poco, che la gioia più autentica nasce dalla condivisione, che la pace è possibile anche nel caos del mondo moderno.
Ho portato con me non solo ricordi e fotografie, ma una nuova consapevolezza, uno sguardo trasformato sulla vita.

Chi viene ad Assisi cercando un santo del passato, trova un messaggio per il futuro.
Francesco ci parla ancora oggi di pace, di rispetto per il creato, di fratellanza universale.
La sua voce, attraverso i secoli, non ha perso nulla della sua forza.
E io, che mi sono persa tra quelle pietre antiche per ritrovarmi alla Verna, ne sono testimone.
Ciao Antonio, grazie di averci guidato delicatamente in questa avventura.
Ti voglio bene.
Sara".

Da pellegrini a testimoni: viaggio tra Wadowice e Cracovia,
dove la spiritualità del giovane Karol Wojtyła
trasforma ancora oggi i cuori nel silenzio di luoghi senza tempo.

C'è un momento, durante il nostro pellegrinaggio in Polonia, in cui il tempo sembra fermarsi.
Succede quando varchi la soglia della casa in via Kościelna 7 a Wadowice.

Qui, dove tutto ebbe inizio,
i nostri pellegrini spesso si fermano in silenzio,
colpiti dall'umiltà di questi ambienti
che hanno visto nascere
uno dei più grandi Santi del nostro tempo.

Statua di San Giovanni Paolo II a Cracovia, luogo di memoria e pellegrinaggio sulle orme del Papa Santo polacco.

Un viaggio nell'anima di Karol

La nostra guida locale, Agnieszka,
ci accoglie con un sorriso: "Benvenuti nella casa del piccolo Lolek".

È così che chiamavano il giovane Karol,
e mentre attraversiamo le stanze della sua infanzia, non siamo semplici visitatori - siamo testimoni di una storia di santità quotidiana.

La cucina dove sua madre Emilia preparava il pane,
la stanza dove il padre lo educava alla preghiera,
la finestra da cui il piccolo Karol guardava l'orologio della chiesa.

Ogni angolo racconta una storia che tocca il cuore.

I nostri pellegrini spesso si commuovono davanti agli oggetti personali della famiglia Wojtyła, testimoni silenziosi di una vita ordinaria destinata a diventare straordinaria.

Wadowice: dove tutto parla di lui

Usciamo dalla casa museo per immergerci nelle vie di Wadowice.
La nostra tradizione è fermarci nella pasticceria storica per gustare le famose kremówki, i dolci preferiti del giovane Karol.
"Non è solo un dolce",
spiega Maria, una delle nostre pellegrine,
"è come condividere un momento della sua giovinezza".

La basilica dell'Immacolata Concezione ci accoglie con le sue campane.
Qui, dove il piccolo Lolek fu battezzato,
i nostri gruppi si raccolgono in preghiera.

È commovente vedere come molti, spontaneamente, si avvicinano al fonte battesimale, toccando l'acqua con reverenza.

Kalwaria Zebrzydowska: il santuario del cuore

Il nostro viaggio in alcuni programmi che lo rendono possibile - se il tuo pellegrinaggio è di soli 3 o 4 giorni, il tempo non lo permette - prosegue verso Kalwaria Zebrzydowska.

"Qui il giovane Karol veniva spesso a piedi",
racconta la nostra guida mentre percorriamo i sentieri immersi nel verde.
Il silenzio di questo luogo è contagioso:
molti dei nostri pellegrini scelgono spontaneamente di fare la Via Crucis in raccoglimento, proprio come faceva lui.

Teresa, una pellegrina di Milano, ci confida:
"Camminare dove lui ha camminato, pregare dove lui ha pregato… è un'emozione che non si può descrivere".

E ha ragione.

C'è qualcosa di speciale in questi sentieri che si snodano tra le cappelle, qualcosa che parla direttamente al cuore.

Cracovia: la città che lo ha formato

A Cracovia, ogni pietra parla di Karol. La città lo ha visto crescere da giovane studente a sacerdote, da vescovo a cardinale.

Nel quartiere operaio di Nowa Huta, davanti alla chiesa dell'Arca del Signore, ascoltiamo la storia della sua costruzione.

"Qui celebrava la Messa all'aperto, nel gelo", racconta Piotr, il nostro accompagnatore locale. "La fede era più forte della paura".

Nei momenti liberi, i nostri pellegrini amano perdersi per le strade della città vecchia, immaginando il giovane Karol che le percorreva durante l'occupazione nazista, quando lavorava alla Solvay e frequentava il seminario clandestino.

"Si sente ancora la sua presenza",
dice Giovanni, un pellegrino di Roma,
"specialmente la sera, quando le strade si fanno silenziose".

La finestra del dialogo

Al palazzo arcivescovile di Franciszkańska 3, ci fermiamo davanti alla famosa "finestra papale".
Ogni sera, durante le sue visite da Papa,
qui si creava un dialogo spontaneo con i giovani.
Anche oggi, i nostri gruppi si fermano a cantare, pregare, ricordare.
È diventata una tradizione: ogni sera ci raduniamo qui per un momento di preghiera comunitaria.

Momenti di grazia quotidiana

Durante il nostro pellegrinaggio, non sono solo i luoghi sacri a parlare.
Sono i piccoli momenti condivisi: la preghiera del mattino sul pullman, le riflessioni durante il pranzo, le testimonianze spontanee la sera in hotel.
Anna, che ha partecipato a diversi nostri pellegrinaggi,
dice sempre: "Qui si respira una presenza viva".

Le nostre guide locali arricchiscono ogni tappa con aneddoti e ricordi personali.

Małgorzata, che da giovane ha incontrato Giovanni Paolo II, condivide con noi memorie preziose che rendono tutto più vivo e toccante.

Un'esperienza che trasforma

"Non è un semplice tour turistico",
ci dice spesso chi partecipa ai nostri pellegrinaggi.
E ha ragione.
Seguire le orme del giovane Karol significa molto più che visitare luoghi: significa lasciarsi trasformare dal suo esempio.

La sera, nei momenti di condivisione, ascoltiamo le impressioni dei pellegrini.

Molti raccontano di aver ritrovato la forza della fede, altri parlano di una pace interiore ritrovata.

C'è chi scopre il coraggio di affrontare le proprie sfide, ispirato dall'esempio di quel giovane che non si è mai arreso davanti alle difficoltà.

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Il messaggio per oggi

"Non abbiate paura!"
Il suo messaggio più famoso risuona ancora più forte quando lo ascolti qui, nella sua terra.
I nostri pellegrini lo sperimentano ogni giorno:
nelle preghiere comuni,
nelle Messe celebrate nei luoghi sacri,
negli incontri con la comunità locale.

Durante l'ultima cena di gruppo, è tradizione condividere un momento di testimonianza.

"Sono venuta cercando un santo, ho trovato un amico",
ha detto Anna,
una delle nostre pellegrine più anziane.

E questo è il vero miracolo del nostro pellegrinaggio sulle orme del giovane Karol: scoprire che la santità non è un concetto astratto,
ma un cammino possibile, fatto di piccoli passi quotidiani,
proprio come quelli che il giovane Lolek muoveva per le strade di Wadowice.

Chi torna da questo viaggio porta con sé molto più di foto e ricordi:
porta una nuova consapevolezza,
una fede rinnovata,
e soprattutto la certezza che la santità è possibile,
anche oggi,
anche per noi.

"La depressione non è arrivata all'improvviso," spiega Giulia.

"È stata come una marea che sale lentamente.

All'inizio, pensavo fosse solo stress da lavoro.

Poi ho iniziato a perdere interesse nelle cose che amavo: l'architettura, l'arte, persino le uscite con gli amici.

I colori del mondo sembravano sbiadire giorno dopo giorno."

Una pellegrina tiene una fiaccola accesa mentre cammina insieme ad altri fedeli durante la Processione aux Flambeaux di Lourdes.

I tentativi di cura

"Ho provato di tutto," racconta.

"Terapia, farmaci, persino tecniche di meditazione. Alcune cose aiutavano temporaneamente, ma niente sembrava scuotere quel senso di vuoto persistente."

La relazione con la nonna

La nonna Teresa era l'ancora di Giulia.

"Era l'unica che riusciva ancora a farmi sorridere," dice Giulia. "Quando mi ha proposto Lourdes, ho visto nei suoi occhi una speranza così intensa che non ho avuto il cuore di rifiutare."

Il viaggio a Lourdes con Bianco Viaggi

"Il personale di Bianco Viaggi era incredibilmente attento," ricorda Giulia. "Samuele, la nostra guida, sembrava capire senza che dicessi una parola. Mi ha dato spazio quando ne avevo bisogno, ma era sempre lì se volevo parlare."

L'esperienza spirituale a Lourdes

"Non sono mai stata particolarmente religiosa," ammette Giulia. "Ma c'era qualcosa nell'aria di Lourdes, una pace che non riuscivo a spiegare. Durante la messa nella Basilica sotterranea, mi sono ritrovata a piangere silenziosamente. Non erano lacrime di tristezza, ma di... sollievo?"

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Il momento di svolta alla Grotta

Giulia descrive in dettaglio il momento alla Grotta nella sua intervista cosi:

"Stavo toccando la roccia umida, ascoltando il gorgoglio dell'acqua. Improvvisamente, ho avuto una sensazione potente, come se qualcuno mi stesse abbracciando. In quel momento, ho sentito che non ero sola nella mia lotta."

"Il toccare la roccia" è un aspetto centrale dell'esperienza di Lourdes, un gesto semplice ma profondamente simbolico. Per Giulia, e per molti pellegrini, rappresenta un punto di contatto tangibile con qualcosa di più grande di sé.

"La roccia era fredda e umida sotto le mie dita," descrive Giulia. "Potevo sentire ogni ruga e crepa della pietra. Era sorprendentemente liscia in alcuni punti, consumata da milioni di mani che l'avevano toccata prima di me."

"In quel momento, mi sono sentita parte di una catena umana che si estendeva indietro nel tempo fino a Bernadette stessa. Ogni persona che aveva toccato quella roccia aveva portato con sé le proprie speranze, paure e preghiere."

"Toccare la roccia era come abbattere un muro - il muro che avevo costruito intorno al mio cuore. Con quel semplice gesto, mi sono permessa di essere vulnerabile, di sperare di nuovo."

"Quel tocco ha segnato un prima e un dopo nella mia vita.

È stato come se, attraverso le mie dita, avessi stabilito una connessione con qualcosa di più grande, qualcosa che non potevo vedere o comprendere pienamente, ma che potevo sentire."

"Da quel giorno, nei momenti di difficoltà, chiudo gli occhi e immagino di toccare nuovamente quella roccia. È diventato il mio personale rituale di forza e rinnovamento."

"La roccia, solida e immutabile, è diventata per me un simbolo di stabilità in mezzo al caos della depressione. Toccarla mi ha ricordato che, come la roccia, anche io potevo rimanere salda di fronte alle tempeste della vita."

Il processo di guarigione dopo Lourdes

"Il cambiamento non è stato immediato o magico," chiarisce Giulia. "Ma Lourdes mi ha dato la forza di ricominciare. Ho ripreso la terapia con rinnovato impegno. Ho iniziato a praticare la gratitudine quotidiana, ricordando quel senso di pace che avevo provato."

"Tornare a casa è stato come svegliarsi da un lungo sogno," racconta Giulia. "La depressione non era scomparsa magicamente, ma sentivo di avere nuovi strumenti per affrontarla."

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Giulia descrive il suo nuovo approccio:

- "Ho ripreso la terapia con un'energia rinnovata. Ora potevo parlare dell'esperienza di Lourdes come un punto di svolta."

- "Ho iniziato a praticare la mindfulness quotidiana, ricordando la pace che avevo provato alla Grotta."

- "Ho creato un piccolo 'angolo di Lourdes' in casa, con una foto della Grotta e un po' di acqua santa. Questo spazio è diventato il mio rifugio nei momenti difficili."

"Il cambiamento più grande," riflette Giulia, "è stato nella mia prospettiva. Prima vedevo solo l'oscurità; ora potevo scorgere sprazzi di luce, anche nelle giornate più buie."

L'impatto sulla sua carriera

L'esperienza di Lourdes ha profondamente influenzato l'approccio di Giulia all'architettura:

"Ho iniziato a vedere gli spazi in modo diverso," spiega. "Mi sono chiesta: come posso creare ambienti che promuovano il benessere mentale?"

Giulia ha intrapreso progetti innovativi:

- Progettazione di un centro di salute mentale ispirato agli elementi naturali di Lourdes.

- Creazione di "spazi di riflessione" in uffici e scuole, incorporando elementi come acqua corrente e luce naturale.

- Collaborazione con psicologi per sviluppare design che supportino la guarigione emotiva.

"La mia esperienza personale è diventata la mia forza professionale," dice Giulia. "Ora, ogni progetto è un'opportunità per creare spazi che non solo ospitano, ma guariscono."

Il volontariato e il supporto agli altri

Giulia parla del suo impegno nel volontariato: "Ogni settimana, parlo con persone che stanno affrontando la depressione. Condivido la mia storia, li ascolto. A volte, tutto ciò di cui hanno bisogno è sapere che non sono soli."

"Condividere la mia storia ha un doppio effetto benefico," spiega Giulia. "Aiuta gli altri a sentirsi meno soli, e allo stesso tempo rafforza la mia propria guarigione."

Un momento particolarmente toccante: "Recentemente, ho accompagnato un gruppo di giovani a Lourdes. Vedere la stessa luce di speranza nei loro occhi che io avevo sperimentato... è stata un'esperienza indescrivibile."

Giulia conclude: "Lourdes mi ha insegnato che la guarigione non è un destino, ma un viaggio. E in questo viaggio, aiutare gli altri è diventato il mio modo di ringraziare per il dono che ho ricevuto."

Questi punti mostrano come l'esperienza di Lourdes abbia avuto un impatto duraturo e multifacettato sulla vita di Giulia, influenzando non solo il suo benessere personale, ma anche la sua carriera e il suo impegno sociale.

Riflessione sulla fede e la spiritualità

"Lourdes non mi ha reso improvvisamente religiosa," riflette Giulia. "Ma mi ha aperto a una dimensione spirituale che non conoscevo. Ho imparato che la fede può assumere molte forme, e che la guarigione spesso inizia quando ci apriamo a qualcosa di più grande di noi."

Il viaggio di Giulia a Lourdes è più di una storia di guarigione personale; è un faro di speranza per chiunque lotti con l'oscurità interiore. La sua trasformazione ci ricorda che il cambiamento, per quanto difficile, è sempre possibile.

Lourdes, con la sua atmosfera di pace e rinnovamento, continua a essere un luogo di profonda trasformazione per migliaia di persone ogni anno. Che si cerchi una guarigione fisica, emotiva o spirituale, l'esperienza di Giulia dimostra che a volte, tutto ciò di cui abbiamo bisogno è l'opportunità di toccare qualcosa di più grande di noi.

"Siamo felice di poter facilitare questi viaggi di scoperta e rinascita. E' la nostra mission" - racconta Annalisa, socia di Bianco Viaggi.

Ogni pellegrinaggio a Lourdes che organizziamo è un'opportunità per le persone di vivere la propria trasformazione, proprio come ha fatto Giulia.

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