Ansia, preghiera, un viaggio a San Giovanni Rotondo: non magia—un respiro che torna.
La notte l’ansia non bussava: entrava.
In coda al supermercato, in riunione, perfino in salotto: il cuore correva, il respiro si faceva corto, i pensieri stringevano la gola. Anna aveva chiesto aiuto, aveva iniziato un percorso con professionisti seri e seguito le indicazioni ricevute; eppure restava un fondo di inquietudine che nessuna parola riusciva a sciogliere. Le giornate erano una stratificazione di paure: paura di non farcela, paura di deludere, paura di ricadere proprio quando sembrava di stare meglio.
Una sera, dopo un colloquio difficile, un frate con una gentilezza antica le disse solo questo: “Vai da Padre Pio”. Non come scorciatoia, non per saltare la fatica, ma per avere compagnia nella salita. Anna iniziò una preghiera breve ogni sera—poche parole, dette piano quando il cuore sfarfallava. Poi, quando il coraggio ebbe il tempo di crescere, decise di partire.
Nulla viene abbandonato: Anna prosegue la terapia, i controlli, gli esercizi che le sono utili. Alla cura affianca la preghiera, come una seconda mano che sostiene. È un ritmo semplice: respirare, nominare la paura senza vergogna, tenere lo sguardo su un punto stabile. Non chiede “tutto e subito”; chiede forza per attraversare bene quello che c’è.
Al Santuario non ci sono palchi.
C’è un corridoio che profuma di cera, il passo degli altri pellegrini, la tomba del Santo davanti. Anna accende una candela, posa una rosa. Il silenzio è spesso ma non schiaccia. Un frate, a bassa voce, dice: “La santità non cancella la storia, la illumina”. Le parole restano sospese come una finestra socchiusa. In quel momento Anna si accorge che il respiro è un po’ più largo: non uno schiocco di dita, non la scomparsa della fatica—piuttosto un peso che scende di mezzo passo e lascia intravedere una strada.
Cammina anche nei luoghi di Padre Pio, si ferma qualche minuto in chiesa, esce all’aria. Non ha cose speciali da raccontare; ha la sensazione che qualcuno tenga il bordo della sua giornata perché non scivoli via.
A casa, il quotidiano è lo stesso: lavoro, impegni, imprevisti. Ma Anna decide tre semplici abitudini che aprono spazio:
Un minuto di respiro quando il cuore accelera, senza fuggire.
Una frase gentile rivolta a sé stessa al posto dell’auto-rimprovero.
Un grazie serale per ciò che ha retto, anche poco.
Continua a seguire la cura, senza eroismi e senza vergogna. Se una giornata va storta, non bolla tutto come fallimento: si concede la possibilità di ricominciare domani. La preghiera non diventa un dovere in più; resta un filo da tenere in mano quando il vento alza la polvere.
Cambiano i rapporti con le cose. Gli attacchi non comandano più ogni decisione: quando arrivano, trovano una persona meno spaventata. Cambia anche la voce interiore: meno severa, più vera. Anna impara ad anticipare i momenti fragili, a chiedere aiuto senza sentirsi sbagliata, a scegliere un passo dopo l’altro. Nulla di spettacolare; e proprio per questo credibile. La memoria di San Giovanni Rotondo — la candela accesa piano, la frase del frate, la tomba davanti — diventa un luogo interiore a cui tornare quando la paura picchia al vetro.
Ci sono giorni buoni e giorni duri. Ma oggi Anna dice una parola che prima non riusciva: respiro. Ringrazia chi l’ha accompagnata, i medici e Padre Pio per una pace che non fa rumore ma regge. Non cerca spiegazioni perfette: custodisce i passi fatti e quelli da fare. A San Giovanni Rotondo tornerà, non per cercare segni: per dire grazie del cammino che continua.
Storia personale, raccontata con pudore: qui cura e preghiera hanno camminato insieme. Nessuna promessa—solo una strada possibile.