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A un chilometro da Santiago: la pietra miliare e la conchiglia che ha fatto piangere Elena

Di: Riccardo

Aggiornato: 26 Agosto 2025
4 minuti

L’ultimo chilometro: la pietra che ti ferma

Samuele ce l’aveva detto la sera prima, davanti a una mappa stropicciata e a un tè bollente: «Domani incontreremo la pietra dell’ultimo chilometro. Non è un cartello: è una soglia. Quando arrivate, prendetevi il vostro tempo».
Il giorno dopo, il sentiero si apre tra eucalipti e muretti bassi; l’aria sa di resina e di terra umida. Il gruppo parla piano, come quando si entra in chiesa. Poi la vedo. Un blocco di granito con inciso un “1” e una conchiglia. Mi blocco di colpo. Il cuore, che finora aveva tenuto il passo, alza la mano e chiede silenzio.
«Mi chiamo Elena. Davanti a quel “1” ho capito che non dovevo arrivare, ma lasciare.»

Pellegrini sul Cammino di Santiago a un chilometro dalla meta, accanto alla pietra miliare con la conchiglia gialla simbolo del pellegrinaggio.

La conchiglia che raccoglie le strade

Mi avvicino. Le linee della conchiglia convergono verso un centro invisibile. Mi sembra di guardare la mappa della mia vita: strade che credevo slegate, deviazioni che avevo giudicato inutili, scelte buone e altre meno, incontri arrivati “per caso”. Tutto, senza saperlo, stava disegnando questa figura semplice che ora mi guarda dalla pietra.
Dietro di me arrivano gli altri: qualcuno tocca il granito, qualcuno sorride, qualcuno piange senza rumore. Io resto lì, con la sensazione che la pietra non stia chiedendo nulla; sta solo offrendo un posto dove posare quello che ho portato fin qui.
Davide mi sfiora il gomito: «Vai tu per prima». È il permesso che non sapevo di chiedere.

Il gesto che lascia andare

Il giorno prima, mentre divideva le credenziali timbrate e i biscotti, Samuele mi aveva passato un sacchetto minuscolo: «Quando sarai alla pietra, se vuoi, lascia qui qualcosa che pesa. Non è per buttare: è per consegnare».
Apro il sacchetto. Respiro. Appoggio la conchiglia nella fessura della pietra: non butto via, consegno. La cavità è piccola, come fatta apposta: la conchiglia resta lì, discreta e luminosa come un sì sussurrato.
Le lacrime arrivano senza preavviso. Non chiedono che la meta risolva tutto. Dicono solo che posso riprendere il passo più leggera. Non ho perso nulla: ho restituito.

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Un incontro che conferma il cammino

Accanto a me si ferma una donna anziana, cappello di feltro e un bastone con la conchiglia legata con un nastro blu. Tiene la schiena dritta, il respiro un po’ corto. «Anche tu lasci qualcosa?», mi chiede senza invadenza. Annuisco. Lei sorride: «Io, cinquant’anni fa, ho lasciato qui una parola che mi teneva ferma. Da allora torno ogni cinque anni per dire grazie».
Rimaniamo qualche minuto in silenzio. Non c’è nulla da spiegare. Quella donna è come una versione futura di me che ha già attraversato molte soglie e mi dice, senza dirlo: “Vai. È la tua volta.”

Il passo che cambia il passo

Riprendo a camminare. L’ultimo chilometro è poco più di una passeggiata, ma dentro è come se stessi arrivando da molto più lontano. Gli uccelli sopra la testa fanno un chiasso allegro, le suole cercano istintivamente il ritmo. Non è cambiato tutto fuori; è cambiato come sto dentro le stesse cose.
Sento che la meta non promette scorciatoie. Promette una direzione. E in questo momento mi basta.

Davanti all’Apostolo: abbraccio e cripta

Le torri della Cattedrale compaiono all’improvviso, e la Plaza do Obradoiro esplode di pietra e cielo. Il rumore dei passi sulla pavimentazione sembra un applauso trattenuto. Entro. L’incenso disegna strade nell’aria. Il Botafumeiro prende quota: catene che cantano, l’aria diventa strada.
Dietro l’altare, l’abbraccio all’Apostolo dura pochissimo, ma basta: «Grazie. Eccomi». In tre secondi si concentra un cammino intero.
Scendo nella cripta. Le luci sono basse, il tempo non ha fretta. Porto con me i nomi che ho in tasca da giorni—famiglia, amici, ferite, desideri—e li appoggio lì, dove le pietre parlano una lingua antica. Non chiedo segni. Chiedo solo la grazia di restare vera su ciò che ho capito alla pietra: lasciar andare non è perdere; è fare spazio.

La piazza che fa spazio

Quando esco, la piazza mi prende per le spalle e mi allarga il respiro. C’è chi ride e scatta foto, chi telefona piangendo, chi si siede a terra con lo zaino come se fosse un divano. Io cammino piano lungo il bordo, guardo le facciate come si guarda una persona che si ama da tempo e ogni volta sorprende.
Mi capita di pensare che una città possa diventare un gesto: Santiago, per me, è l’aprire le mani. Tutto qui insegna a non stringere troppo: il passo, la conchiglia, la pietra, persino l’incenso che non resta fermo mai.

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Cosa resta, tornando

Nei giorni dopo qualcuno chiede: «Ma poi, cosa ti è cambiato davvero?». Potrei parlare di programmi semplificati, di cose in casa che non pesano più, di scelte più oneste. Ma la verità è più semplice: è rimasto l’ultimo chilometro.
Ogni volta che sento che qualcosa si ingolfa—un pensiero, una paura, una fretta che non serve—chiudo gli occhi e torno lì. Vedo la pietra, il “1”, la conchiglia con le sue linee tutte convergenti. Riascolto le parole di Samuele: «Non è un cartello: è una soglia». E faccio un passo, solo uno, nella direzione del centro.
A volte mi basta un gesto concreto: posare il telefono lontano per un’ora, dire una parola buona che stavo trattenendo, scegliere di non rispondere di scatto. Altre volte resto in silenzio, come davanti alla cripta: appoggio i nomi, le preoccupazioni, i grazie, e lascio che si allineino senza che io debba sistemare tutto.
È così che Santiago continua anche quando i chilometri sono finiti. Non come ricordo da cornice, ma come postura del cuore: camminare leggeri perché il peso è stato consegnato; avanzare senza certezza di capire tutto, ma con la certezza di non essere sola.

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