
La sera prima Elen ci aveva avvisati: «Domattina alle 5:30. Vi mostro una Santiago che quasi nessuno vede». All’ora fissata, usciamo in punta di piedi. L’aria è fresca, la pietra tiene ancora la notte tra le fughe. Le stradine del centro storico sono vuote: nessun tavolino trascinato, nessuna vetrina accesa, solo il rumore netto dei nostri passi.
Claudia mette la mano su un muro di granito: è freddo, umido di rugiada, eppure vibra appena — come se trattenesse una storia pronta a farsi sentire da chi sa ascoltare. «Mi sembrava che la città respirasse», dirà poi. Non è suggestione: è assenza di rumore che restituisce la voce alle cose.
Giriamo in un reticolo che di giorno è un fiume di persone, ma all’alba è un alveo: Rúa do Franco e Rúa da Raíña senza insegne luminose sembrano un’illustrazione antica. Una serranda si solleva piano, una scopa accarezza le pietre, il profumo del pane arriva da una panetteria nascosta. La città si sveglia dal basso, come fanno i bambini quando prima si muovono le dita e poi aprono gli occhi.
A ogni curva, la luce cambia tono. Dove il giorno corre, l’alba indugia: alza un sopracciglio sulle cornici, sfiora i capitelli, prova una bozza di rosa sulle facciate. Entriamo in una piazzetta che di solito si attraversa senza guardarne il nome. Elen indica in alto: «Qui la luce del mattino è una matita fine: disegna cose che più tardi svaniscono».
Claudia si ferma. Poggia la palma di nuovo su un muro. È come se il granito le restituisse una mappa: passi, preghiere, lacrime, risate sedimentate in secoli di arrivi. L’architettura qui non fa mostra: accompagna. Le ombre corte delle prime ore scolpiscono dettagli che a mezzogiorno si perdono; una nicchia con un santo consumato guarda il vicolo come un vecchio maestro che non interrompe mai la lezione.
Ti ritrovi in queste righe?
Arriviamo fino a Praza das Praterías mentre l’orlo del sole inizia a toccare la facciata meridionale. Elen dice sottovoce: «La città è un libro di pietra; l’alba è il dito che sottolinea». E davvero, per qualche minuto, i rilievi sembrano sporgere dal tempo. Nessuno parla: non per regola, per gratitudine.
Sui gradini di una chiesa, un uomo siede in silenzio. Zaino consumato, bastone con la conchiglia. Ha l’aria di chi ha finito di camminare ma non ha fretta di fermarsi. Elen ci invita ad avvicinarci con delicatezza.
Si chiama Miguel, professore di filosofia, sessant’anni, 800 chilometri alle spalle. Sorride con un pudore contagioso. «Il vero Cammino» dice «non l’ho finito ieri. Lo comincio oggi, se porto questa luce a casa». Non c’è vanto nella voce; c’è un ordine buono, come quando metti a posto una stanza e ti riconosci nello spazio che resta.
La frase attraversa Claudia senza rumore, come una freccia lenta. Da settimane cercava una chiave che non fosse né trofeo né fuga. Eccola: portare l’alba. Non le strade o i chilometri, ma il modo in cui il cuore si dispone quando la città è vuota e leziosa di lucidità.
Treviso non è Santiago, e va bene così. Ma il mattino, se vuoi, ha la stessa grammatica: pochissime parole, tutte dense. Claudia torna con un’abitudine nuova: un’ora al giorno prima del resto. Niente telefono, niente notizie. Una tazza, una sedia, una finestra. La luce fa il suo mestiere millimetrico e lei si lascia trovare.
«Ho scoperto quante cose superflue stavo portando» racconta. «Ho iniziato a chiedermi: questo è essenziale o solo rumore? Questo mi avvicina o mi allontana da quello che conta?». In ufficio se ne accorgono: meno precipitazioni, meno reazioni, più gesti pieni. A casa si mangia più spesso senza TV; i messaggi aspettano, lei no.
Non è la favola del “tutto è cambiato”. È meglio: qualcosa è cambiato dove conta. La pazienza prende il posto della fretta. Il “controllo” scivola via e resta la presenza. Quella di cui Miguel parlava. Quella che le pietre del centro storico le hanno insegnato senza dire niente.
All’alba Santiago è una maestra severa e gentile. Ti mostra la differenza tra passare e abitare. Il turista passa in elenco, il pellegrino abita in profondità. Il primo colleziona viste; il secondo si fa guardare dai luoghi. Claudia si ritrova spesso a chiedersi: Sto correndo da un’attrazione all’altra della mia giornata, o sto lasciando che la mia giornata mi trasformi?
Riapre una vecchia abitudine: scrivere due righe prima che inizi il rumore — non “cosa farò”, ma “cosa custodisco”. Sono appunti piccoli, a volte una sola parola. Eppure quell’elenco invisibile tiene insieme. Non produce miracoli: produce spazio.
Quando torna, mesi dopo, cammina di nuovo in quelle vie senza folla. La città la riconosce; lei riconosce la città. La pietra non è cambiata, è cambiato il suo peso in chi la tocca. Un fornaio le fa cenno alzando il mento, un addetto alle pulizie passa come un diacono della cura, un raggio di sole rifà esattamente il gesto che ricordava: punta, accarezza, scompare. Nessun trionfo, nessuna scena da cartolina. Solo fedeltà alle cose piccole che hanno rimesso ordine.
Claudia non ha “visto la città deserta” per raccontarlo: l’ha vista per imparare. A distinguere tra essenziale e superfluo. A lasciare che la luce faccia il suo lavoro minuto per minuto, come fa sui rilievi di Praza das Praterías. A ricordare che la vita vera non è una somma di chilometri ma una serie di soglie: e l’alba è una di quelle che si possono varcare ogni giorno.
Quando qualcuno le chiede che cosa le ha dato Santiago, lei risponde così: «Un modo di cominciare. Anche quando non ho una meta lontana, posso essere pellegrina dell’anima: aprire la finestra, toccare la pietra del davanzale, respirare piano. E poi camminare — poco, ma bene».