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Santa Rita: pellegrinaggio a Cascia dove l’impossibile si fa rosa

Di: Riccardo

Aggiornato: 25 Agosto 2025
5 minuti

Arrivo a Cascia.
La strada s’arrampica tra colline che sanno di pietra rosa e di erba bagnata.
Davanti alla Basilica, il vento gira piano; il piazzale respira largo. Non sono qui per vedere. Sono qui per consegnare.

Entro. La luce della mattina taglia la navata come una lama chiara.

C’è odore di cera e di legno antico, passi che sussurrano.

Qualcuno stringe un rosario, qualcuno una fotografia;

tutti portano qualcosa che non si vede ma pesa.

Io pure.

Urna con il corpo incorrotto di Santa Rita da Cascia nel Santuario, meta di pellegrinaggi e preghiere per miracoli e grazie impossibili.

La Basilica di Santa Rita: il cuore che impara a stare

Lo sguardo corre in alto e poi si abbassa, come se volesse ricordarmi da dove arrivano i doni e dove devono cadere.

Un frate passa lento, sfiora un banco con le dita: quel gesto piccolissimo mette ordine al cuore.

Mi siedo, lascio che il respiro si prenda il suo tempo.

A Cascia non si fa: si sta. È la prima grazia.

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Davanti alla teca di Santa Rita: quando il “per favore” diventa “grazie”

La fila scorre piano. Ognuno si avvicina come può. Davanti alla teca, il mondo smette di spingere.

Il volto di Rita è quieto, come chi ha già pianto e adesso custodisce.

Sento dietro di me un singhiozzo breve, quello che scappa quando non c’è più spazio per tenerlo dentro.

Accanto, una donna appoggia una foto al petto e non dice parole: lascia che parlino gli occhi.

Mi capita una cosa semplice e potente: le richieste che avevo in mente cambiano forma.

Non spariscono—si consegnano.

È un passaggio quasi impercettibile: dal “per favore” nasce un “grazie” che non avevo programmato.

Capisco che non tutto è risolto, ma molto è già in buone mani.

Il giardino e la rosa d’inverno: segni che sanno di casa

Fuori, il cortile profuma di erba e di pioggia recente.

Su un’aiuola una rosa tardiva sembra essersi dimenticata dell’inverno.

A Cascia si racconta spesso del miracolo della rosa e dei fichi sbocciati fuori stagione: non lo cerco, ma il pensiero mi viene addosso da solo.

Alcuni segni non fanno rumore; ti si posano addosso come una sciarpa leggera e scaldano senza farsi notare.

Cammino piano.

Un padre mostra al figlio una piantina: “Vedi? Qui si ricomincia”.

Il bambino annuisce senza capire davvero, ma sorride.

Anche questo è Cascia: parole semplici che, più tardi, diventano ponti.

Il Monastero: la stanza piccola dove il mondo diventa grande

Varco la soglia del monastero.

Le stanze parlano piano: muri spogli, finestre che fanno entrare una luce che non ferisce, solo avvolge.

La cella di Rita è piccola; il letto non chiede attenzioni. Qui la parola “sì” non è un grido: è una goccia che cade a ritmo costante finché scava la pietra. Capisco che la santità non è spettacolo: è fedeltà che non si stanca.

Una suora passa e sorride senza fermarsi. Quel sorriso ha il sapore delle cose vere: non trattiene, accompagna. Nella cappella il silenzio è spesso, quasi tangibile. Lo lascio lavorare su di me come fa l’acqua con il sasso nel fiume.

Il corporale del miracolo eucaristico: luce che mette ordine

In una cappella laterale è custodito il corporale legato a un antico miracolo eucaristico. Non serve conoscere i dettagli per capire cosa succede a chi entra: lo vedi dalle spalle che si abbassano, dai respiri che si allungano. La luce qui non è abbagliante; chiarisce. È come se a Cascia la fede avesse scelto di parlare il linguaggio dell’essenziale.

Mi fermo. Le parole del Vangelo mi attraversano senza che debba inseguirle. Non prendo appunti, non metto promemoria. Lascio che restino dove devono restare.

Api, pane e lettere: la devozione che profuma di casa

Le tradizioni qui hanno il profumo delle cucine buone: l’olio che arde davanti alle immagini, i “panetti di Santa Rita” condivisi con chi ha bisogno, le api bianche di cui si racconta che non pungono. Piccoli gesti, grandi strade. Sotto una teca ci sono lettere, foglietti, ex-voto. Non sono trofei: sono pezzi di vita restituiti. Una signora tocca il vetro con un dito, come si fa quando si saluta qualcuno alla finestra. Non c’è teatro: solo riconoscenza.

Una spina e mille rose: cosa imparo qui

Rita porta nel volto la memoria di una spina. A volte la vita punge: qui non ti dicono che non farà più male; ti insegnano a non lasciare che il male abbia l’ultima parola. La spina non sparisce, ma qualcosa la trasforma. È questa l’esperienza più forte: uscire non “senza” ferite, ma con ferite che non comandano più.

Penso ai nomi nelle mie tasche. Ognuno ha la sua spina; ognuno ha diritto alla sua rosa. Non so quali rose verranno, né quando. Ma so che in questo luogo c’è un movimento silenzioso che porta pazienza dove c’era fretta, fiducia dove c’era difesa, riconciliazione dove c’era muro.

Un incontro sul sagrato: la lezione in due righe

Sul sagrato un nonno sistema il cappellino al nipote. “Perché tutti stanno zitti?” chiede il bambino. “Perché ascoltano” risponde il nonno. Due righe, una catechesi. Cascia a volte offre risposte così: quasi senza accorgersene.

Mi viene da ridere tra me e me: quante volte ho cercato frasi perfette, e qui una voce bassa mette a posto in un attimo quello che a tavolino non riuscivo a dire.

Tornare diversi sulle stesse cose

Rientro un’ultima volta in Basilica. Non ho richieste nuove. Riprendo in mano i nomi, uno per uno. Non li leggo ad alta voce; li appoggio dove so che vengono custoditi. È come mettere un bicchiere sotto una fonte: non serve agitare la mano, basta tenerlo fermo. Capisco che, forse, il miracolo più grande è proprio questo: tornare diversi sulle stesse cose. Fuori nulla è cambiato, dentro qualcosa si è messo al suo posto.

Le campane suonano, il suono scivola sulle case e cade morbido nella valle. Il vento torna a muovere le foglie degli ulivi. Metto la mano in tasca per istinto: i nomi sono ancora lì, ma hanno preso una direzione. Non pesano; guidano.

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Uscire da Cascia: la pace che non fa rumore

Riparto senza fretta. La strada ridiscende e porta con sé una pace che non ha bisogno di prove.

Non ho visto spettacoli, non ho collezionato emozioni forti.

Ho imparato, però, che qui la speranza indossa cose semplici: una candela che finisce, una rosa fuori stagione, un banco consumato, una porta che si apre e si chiude senza sbattere.

Santa Rita continua a insegnare la sua lingua discreta: ricucire.

Ricucire rapporti, ricucire giorni, ricucire il coraggio dove s’era strappato.

Non ti urla addosso; ti ricorda piano che puoi ricominciare.

E mentre il paese si allontana dallo specchietto, mi accorgo che la grazia, qui, ha una forma molto concreta: è la forza di dire “sì” proprio nel punto dove ieri dicevo “non ce la faccio”.

Una spina non scompare, ma nel cuore comincia a profumare di rosa.

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