Stringo in tasca i nomi. Non sono fogli, sono volti. A San Giovanni Rotondo il vento passa tra gli ulivi del sagrato e porta un odore pulito di sera. La chiesa nuova respira larga, l’arco che abbraccia la piazza si accende di un’oro gentile. Non sono qui per vedere. Sono qui per consegnare.
Santa Maria delle Grazie: Padre Pio indica la Madre
Entro a Santa Maria delle Grazie. In fondo, il grande mosaico: la Madonna, il Bambino, e Padre Pio che la indica. È un gesto semplice, quasi quotidiano: “Lì.” Lì dove guardare quando il cuore non sa più dove stare. Mi fermo e lascio che il rumore del viaggio si appoggi alle spalle. La porta si richiude piano, il brusio si assottiglia come quando si rientra e la casa, finalmente, è casa. Il legno scricchiola sotto i passi, l’ottone è consumato dalle dita; su un banco, iniziali incise da chissà chi, come un bisogno di lasciare un filo di sé. Tutto qui dice: puoi restare.
Davanti alla teca di Padre Pio: la preghiera che affida
Scendo nella cripta. L’oro dei mosaici muove la luce come acqua viva. Le persone camminano piano, ciascuna col proprio “per favore” e il proprio “grazie” — perché qui quasi sempre le due parole stanno insieme. La teca con il corpo di Padre Pio appare all’improvviso, così vicina che il fiato si accorcia da solo. Non è un vedere: è un lasciarsi guardare.
Per un attimo non so più che preghiera dire. Allora faccio come i bambini quando non trovano le parole: appoggio i nomi al silenzio. Le labbra si muovono appena, gli occhi cercano un punto qualsiasi per non cedere. Accanto a me una donna sfiora il vetro con la punta delle dita; dietro, un uomo trattiene un singhiozzo breve, quello che esce quando non c’è più spazio per tenerlo dentro. Qui le lacrime non fanno rumore — si trasformano. Non so quando, non so come. Ma succede.
Resto un poco più del necessario. Un anziano passa il rosario tra le dita come chi conta il tempo buono; una madre stringe la mano di un ragazzo che guarda a terra; un frate sussurra “Coraggio” senza alzare gli occhi. Mi accorgo che sto respirando più piano, come per non disturbare Qualcuno. Non escono parole nuove: rientrano quelle che avevo portato, ma con un peso diverso. È come appoggiare una pietra e scoprire che sotto c’era una mano. Non cerco segni: mi basta questa misura quieta, questo stare che non pretende e non scappa.
Fiaccolata alla Madonna delle Grazie: mani che diventano luce
Risalgo. La piazza è diventata sera. Sotto le arcate parte la fiaccolata: la Madonna delle Grazie esce, piccola e solenne, e all’improvviso le mani della gente sono tutte luce. Le candele tremano come il respiro di bambini addormentati; i telefoni provano a fermare l’istante, ma l’istante non si lascia fermare. L’Ave Maria si allarga sul sagrato e ti prende di schiena, come un’onda che non ti butta giù ma ti sospinge. Penso ai nomi nella tasca: non sono più pesi, sono affidati.
La statua rientra piano e la piazza resta sospesa, come dopo un temporale buono. Le fiaccole continuano a bruciare tra le dita, piccole stelle domestiche. Una bambina prova a proteggere la fiamma col palmo; il padre gliela avvicina al petto: “Così non si spegne”. Forse la fede è questo: tenere il fuoco all’altezza del cuore, senza sbandierarlo al vento. La banda tace; dalle arcate torna un canto che non ha fretta. Nella mia tasca, i nomi stanno fermi: non chiedono più la mia forza, chiedono la mia fiducia.
Cella e confessionale: la misericordia che sta
La mattina ha un odore diverso. Il complesso è quasi vuoto, i passi fanno eco. La cella è sobria, piccola, un letto che non chiede attenzioni; il tavolino racconta ore lunghe, la finestra uno spicchio di cielo. Non commuove perché è antica: commuove perché basta. Poco più in là, il confessionale ha il legno consumato dove tanti hanno imparato a lasciarsi guardare senza difese. Non ci sono pose, non c’è teatro. C’è solo un invito: “Siediti. Dillo. Ricomincia.” Qui capisco che la misericordia non è una cosa da capire: è un luogo, e quel luogo ti siede accanto. Non ti scusa, non ti schiaccia; ti separa da ciò che ti si è incollato addosso. Quando ti alzi, non porti via una ricetta, ma la possibilità di un passo vero.
Resto qualche minuto nel corridoio, come a una fermata senza orari: decidi tu quando ripartire. Un frate passa con un mazzo di chiavi che suona come un piccolo campanello; il rumore non disturba, accompagna. Una coppia esce in silenzio: lei con le mani intrecciate, lui con un foglietto piegato in quattro. Lo terrà in tasca tutto il giorno, lo so, come si tiene ciò che non si vuole lasciare cadere.
Prima di ripartire: una pace che non fa rumore
Rientro in chiesa ma mi fermo lontano. Non parlo più. Lascio che sia il posto a parlare. Mi torna addosso una frase come un cane fedele: “Pregate, sperate e non vi agitate.” Non è uno slogan. È una postura del cuore. La provo, così com’è, senza aggiustarla. E mentre la provo mi accorgo che qualcosa si allinea dentro: non tutto è risolto, ma tutto è consegnato. È diverso.
Fuori il sole è alto, il cielo pulito. La piazza si riempie di persone che arrivano da ogni parte d’Italia: una coppia che si tiene per mano come fosse il primo giorno, un nonno che spinge piano la carrozzina, un ragazzo con lo zaino che guarda in su e non sa bene cosa sentire. Non serve sentire: serve stare. Stare dove qualcuno ha indicato la Madre, e dire “eccomi” anche se trema la voce. Sorrisi piccoli, strette di mano che durano un secondo in più del necessario, abbracci che non chiedono notizie. Ogni tanto un campanello, un saluto, il fruscio di un rosario che torna in tasca. La vita di fuori non è in pausa: è qui, solo più nitida.
Prima di ripartire torno un’ultima volta nella cripta. Non ho nuove richieste: ho gli stessi nomi di ieri, ma sono più leggeri. Li rimetto lì, nel grande oro che sembra movimento di fiume. C’è chi passa la mano sul marmo, chi resta due passi indietro, chi chiude gli occhi per fare spazio a un’altra vista. Capisco che a volte il miracolo non è una porta che si spalanca, ma una porta che smette di sbatterti dentro. Non è una scossa: è un peso che trova posto. Pace. Non rumorosa, non teatrale. Pace che non ha bisogno di prove.
Esco. Il vento è di nuovo quello degli ulivi. Metto la mano in tasca per istinto: i nomi sono dove li avevo lasciati, ma adesso hanno una direzione. Padre Pio continua a indicare. E io continuo a guardare lì. Non so cosa accadrà domani, ma so dove mettere gli occhi finché il cuore impara a respirare così, semplice e pieno. La strada di ritorno avrà le stesse curve, gli stessi cartelli, gli stessi semafori. Eppure non sarà identica: ci passerò dentro con un passo nuovo, come quando si rientra e si sa di poter ricominciare senza fare rumore.