Una nonna che non molla. Un nipote che lotta. Un bambino che crede. Collevalenza come compagna di strada.
“Era una normale visita di controllo,” ricorda Lucia, 45 anni, insegnante di Padova. “Mamma — Maria — aveva solo un po’ di stanchezza e qualche dolore addominale. Mai avremmo immaginato che quella visita avrebbe cambiato le nostre vite.”
La diagnosi fu impietosa: tumore al pancreas in fase avanzata, con metastasi al fegato. I medici furono chiari: il tempo era poco, tre o quattro mesi. Le opzioni terapeutiche erano limitate e molto gravose. In casa calò un silenzio nuovo.
Maria aveva 72 anni e una famiglia che la adorava: tre figli, cinque nipoti, una casa sempre aperta. “Come spieghi a dei bambini che la loro nonna sta per andarsene?” si domandava Lucia ogni notte.
“Il più difficile era mantenere la normalità,” racconta Paolo, il figlio maggiore. “Mamma non voleva che i nipoti la vedessero soffrire. Continuava a cucinare le sue famose tagliatelle, a raccontare storie, a sorridere. Ma noi vedevamo che ogni gesto le costava sempre più fatica.”
Fu Matteo, 8 anni, il più piccolo dei nipoti, a cambiare il corso degli eventi. Un giorno, tornando dal catechismo, disse:
“Nonna, la maestra ci ha parlato di un posto speciale, vicino ad Assisi. C’è un’acqua benedetta che fa guarire le persone. Dobbiamo andarci!”
All’inizio la famiglia era scettica. “Mamma faceva fatica anche solo ad alzarsi dal letto,” ricorda Lucia. “Un viaggio sembrava impossibile.”
Ma Matteo non si arrese. Ogni sera pregava davanti all’immagine di Madre Speranza che gli aveva regalato la catechista. “Vedevo mio figlio inginocchiato accanto al letto, con quella fede pura che solo i bambini possono avere,” racconta Lucia. “Fu quella fede a convincerci.”
Partirono una mattina presto. In borsa misero poche cose: un rosario, un biglietto con il nome di Maria, una bottiglietta vuota. La strada verso Collevalenza aveva il rumore delle domande senza risposta e il passo corto della speranza.
Arrivati al Santuario dell’Amore Misericordioso, entrarono in chiesa in punta di piedi. Maria si sedette in fondo, per non disturbare. Accesero una candela, sussurrarono un grazie e una richiesta semplice: “Tienici quando noi non ce la facciamo”.
Poi si avvicinarono alla fontana. Lì l’acqua è un segno: non un talismano, ma una memoria viva di misericordia. La nonna riempì la bottiglietta con calma; Matteo le mise accanto l’immagine di Madre Speranza. “Portiamo qualcosa di buono a casa,” disse piano, “come le primizie dell’orto.” Nessuna voce dal cielo, nessun bagliore: solo un gesto concreto che rimetteva la schiena dritta.
Si tornò in reparto. La vita riprese il suo ritmo: terapie, parametri, attese. Non cambiò tutto e subito, ma qualcosa cambiò verso. Le notti furono un po’ più quiete; il dolore, più gestibile. Le parole dei medici rimasero prudenti, ma si fecero meno severe. In famiglia impararono a ringraziare i millimetri di bene senza pretendere chilometri.
L’acqua benedetta stava sul comodino. A volte una goccia sulla fronte, altre soltanto lo sguardo che tornava a respirare. Matteo continuava la sua piccola preghiera serale: era il loro patto.
Il tempo, senza fare rumore, cominciò a lavorare. Le visite segnarono una stabilità inattesa; i nipoti tornarono a sedersi intorno al tavolo con la nonna. Non era un trionfo; era strada aperta dove prima sembrava solo muro. E quel poco bastava per riempire una giornata di gratitudine.
Quando arrivò il momento di tornare a Collevalenza, non portarono grandi discorsi: una candela e una rosa. Maria, più lenta ma dritta, sussurrò: “Grazie”. Matteo appoggiò accanto alla fontana l’immagine di Madre Speranza e un fiore “per chi ha ancora paura”. Non cercavano spiegazioni perfette: riconoscevano il bene e lo custodivano.
Resta un quaderno con poche righe di gratitudine la sera. Resta la tavola apparecchiata con calma, senza fretta. Resta una bottiglietta sul ripiano della cucina: non una formula, ma il ricordo di una strada percorribile fatta di cura, tempo, preghiera, presenza. E resta la fede di un bambino che ha insegnato agli adulti a non smettere di credere.
Questa è una testimonianza personale. Qui la cura ha lavorato con pazienza, la preghiera ha dato fiato e l’acqua benedetta di Collevalenza è stata un segno di fiducia, non una magia. Non promettiamo nulla: raccontiamo strade possibili dove la gratitudine impara il passo del quotidiano.