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Plaza del Obradoiro: quando Giorgio vide la Cattedrale di Santiago dopo gli ultimi chilometri del Cammino

Di: Riccardo

Aggiornato: 26 Agosto 2025
4 minuti

Non pensavo di piangere. A sessantasei anni credevo di avere già visto quasi tutto. Invece i miei occhi hanno ceduto appena la Cattedrale è apparsa davanti a me, in Plaza do Obradoiro. Non erano lacrime di tristezza: erano il momento in cui il peso, dentro e nello zaino, smetteva di tirare in basso. E capivo che arrivare fin qui non significava “finire”, ma ricominciare.

Monte do Gozo: la prima vista che riallinea il cuore

Siamo partiti all’alba da Monte do Gozo. L’erba bagnata incollava il profumo alle scarpe, gli eucalipti facevano scricchiolare il cielo. Lo chiamano “la montagna della gioia” perché, da secoli, qui le torri di Santiago compaiono all’improvviso come una risposta che non sapevi di star facendo. Non è un traguardo: è l’anticipo che ti raddrizza il respiro.
Da lì in poi, ogni passo degli ultimi dieci chilometri sa di adesso. La città cresce, ma non ruba il sacro al cammino: lo consegna alle pietre, ai portici, ai volti che si svegliano.

Cammino e rimetto in fila la mia storia: mia moglie se n’è andata cinque anni fa. Ho tenuto insieme lavoro, figli, nipoti. Tutto “bene”, ma senza colore. La nebbia si apre come una tenda e capisco perché sono qui: non per cancellare, per ricordare bene. Per dire al dolore che può stare con me senza guidarmi.

L’arrivo in Plaza do Obradoiro: quando il peso scende dalle spalle

Svolto l’angolo e la piazza esplode in pietra e cielo. Non si entra: si è accolti. Le gambe si fermano, il petto no. È come se una voce gentile dicesse: “Sei arrivato come sei. Va bene così.”
Le lacrime mi salgono senza chiedere permesso. Non cerco di trattenerle. Ogni passo, da Monte do Gozo fin qui, aveva preparato questa resa buona: non devo più stringere. Non tradisco il ricordo di mia moglie se lascio tornare i colori; lo onoro, con lei dentro e non più soltanto “dietro”.

Resto qualche minuto al margine, poi entro in Cattedrale. Il fresco sulla pelle, il rumore dei passi che si fa preghiera. Appoggio in tasca un nome e lo porto all’altare. L’abbraccio all’Apostolo dura il tempo di un respiro: grazie. Scendo in cripta: poche luci, pietra antica. Porto con me i nomi — famiglia, amici, i nipoti — e li appoggio lì, senza chiedere prove. Chiedo pace giusta: non quella che annulla, quella che tiene insieme.

La Cattedrale: abbraccio, cripta e un cenno d’incenso

Quel giorno entriamo anche alla Messa del Pellegrino. L’aria odora di cera e legno vecchio; i Paesi dei pellegrini vengono letti ad alta voce, e quando sento “Italia” la gola fa un nodo buono: sono uno dei tanti, eppure la mia storia è unica.
Il Botafumeiro prende quota per poche oscillazioni, abbastanza da restare addosso. Io tengo la testa bassa: non cerco lo spettacolo, cerco un “sì” piano. 

Finita la celebrazione, rimaniamo seduti qualche minuto. Non mi interessa contare gli stili o ricordare date. Ho trovato un gesto: l’abbraccio dietro l’altare, la discrezione della cripta, un “grazie” che sa stare in silenzio.

Santa Maria de Melide: il luogo che decanta

Nei giorni attorno a Santiago c’è un luogo piccolo che mi resta addosso: Santa Maria de Melide. Romanica, silenziosa, pareti che hanno memoria delle mani. Ci arrivo quasi per caso, guidato da chi conosce bene il Cammino. Dentro non c’è folla, non c’è rumore: c’è il tempo di sedersi.
Penso a quanti, prima di me, hanno poggiato qui la schiena, gli zaini, i dubbi. Le chiese così non fermano il cammino: lo decantano. Una signora accende una candela e la protegge con il palmo; un ragazzo appoggia lo zaino a terra come se fosse una persona cara; un uomo resta in piedi, immobile, con gli occhi chiusi. Non succede nulla di eclatante e, proprio per questo, succede il necessario.

Fuori, il vento muove poco l’erba. Dentro, qualcosa si è mosso molto: capisco che non devo “sentire” per dire che è vero. Devo stare. È forse il dono più grande che Santiago stia facendo a un uomo che ha passato anni a stringere i denti.

Cosa resta, tornando

Mi chiedono spesso: “E dopo?”. Dopo non è nostalgia. Dopo è pratica. Ho ricominciato a suonare la chitarra che avevo lasciato in custodia al silenzio. Con i nipoti gioco più forte e più piano al tempo stesso. In casa ho fatto un posto a tre cose: la conchiglia, la credencial timbrata, una foto in Plaza do Obradoiro. Quando la vita accelera, mi fermo lì due minuti: il cuore ritrova il passo.

Ho iniziato un diario che non è un elenco di eventi, ma di incontri: persone, pensieri, parole che tornano. Ho capito che “camminare leggeri” non significa portare meno, ma portare meglio. E che il dolore non se ne va: cambia forma. Da muro diventa spalla; da pietra nello zaino diventa pietra d’angolo.

Ripenso alla Plaza do Obradoiro come a un gesto, non a un luogo: aprire le mani. Lì ho smesso di stringere ciò che temevo di perdere e ho imparato a tenere ciò che mi è dato senza possederlo. Lì ho capito che non si viene a cercare magie; si viene a riconoscere che la strada vera è quella che ricomincia, un passo dopo l’altro, a casa.

Se oggi qualcuno mi chiedesse cosa ho trovato negli ultimi chilometri prima di Santiago, direi così: ho ritrovato un modo di abitare il presente senza paura di guardare avanti. Ho ritrovato i colori. E quella leggerezza che non è superficialità, ma fedeltà a ciò che conta.
E quando il ricordo si appanna, torno con la mente alla prima vista da Monte do Gozo, alle lacrime in piazza, a quell’odore d’incenso che sale e disegna strade sopra le nostre teste. Non cerco più risposte perfette: cerco il passo giusto. E spesso, inspiegabilmente, lo trovo.

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